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(fonte Conflitti e strategie)
Il prof. Gianfranco La Grassa, economista e saggista, di cui si pubblicano le opinioni in questo sito è professore emerito di politica economica alle università di Pisa e Venezia(quì una sua breve biografia con le ultime sue pubblicazioni). Ha scritto decine di saggi pubblicati con le più importanti case editrici italiane, da Editori riuniti a Feltrinelli, e parecchi suoi studi hanno avuto traduzioni in varie lingue.
Per fare conoscere il pensiero di Gianfranco La Grassa viene pubblicato in altre pagine una introduzione che scrisse qualche anno addietro il compianto Costanzo Preve.
Si ha le netta sensazione, a mio avviso del tutto esatta, che si confonda continuamente
la giusta e irrinunciabile polemica contro l’economicismo con la critica – consapevolmente
rifiutata da chi difende quest’“ordine costituito” – di
ogni tipo di analisi che abbia un carattere strutturale, analisi che è stata
invece l’elemento di forza di teorie del tipo di quella di Marx.
L’economicismo prende sovente la forma che Marx definì "feticismo
delle merci", con la sostituzione dei rapporti tra cose (nel capitalismo
le merci) ai rapporti tra uomini. In senso lato, si può secondo me parlare
di economicismo quando tali rapporti interumani vengono nascosti da quantità definite
economiche quali prezzi, profitti, quote di mercato, transazioni finanziarie,
saggi di interesse e via dicendo. Un ragionamento fra i più banali in
tal senso è, ad esempio, il seguente (usato perfino da certi pseudo critici
del capitalismo): "nell’anno 0 l’x% della popolazione possedeva
l’y% del reddito nazionale (o magari del patrimonio nazionale, ecc.); nell’anno
0+t lo stesso x% ne possedeva l’y+z%". Se ne trae allora la conclusione
di una evidente iniquità del tipo di società che consente una simile
maldistribuzione della ricchezza, di un altrettanto evidente sfruttamento dei “miseri” da
parte dei più “ricchi”, con il corollario (di un tempo ormai
lontano) che si avvicinerebbe l’ora della ribellione dei primi.
E’ meglio poi non diffondersi sull’attuale mito delle quotazioni
di Borsa, vista come “Dio” benefico (tutti avrebbero l’opportunità di
arricchirsi) o come dominio del “Maligno” (si approssima una crisi
spaventosa con grandi sofferenze per intere popolazioni). Oggi è assai
di moda lo spread o ci si inchina ai giudizi di sedicenti società di rating
(due americane e una inglese), veri organi di manovra politica da parte dei predominanti,
attuata con la falsa obiettività delle cifre ottenute mediante calcoli
ben adattati alle esigenze dell’inganno da perpetrare a danno di coloro
che accettano la subordinazione ai prepotenti. Si tratta di rozzezze e grossolanità dal
punto di vista di un corretto atteggiamento sia teorico che pratico; tuttavia,
i loro propalatori si servono di media asserviti appunto alle esigenze di precisi
paesi e gruppi dominanti. E altri gruppi di subordinati, che accettano per interesse
questa loro condizione di dipendenza, si fanno essi pure diffusori di simili
menzogne, avendo a disposizione tutti i mezzi per far accadere gli eventi drammatici
profetizzati.
In realtà, simili considerazioni hanno la valenza e profondità di
quelle di un individuo che viva sempre chiuso in una stanza e pensi all’intero
mondo come ad una superficie piatta del tutto simile al pavimento della stessa.
Ben diverso è il caso quando uno studioso serio dei rapporti tra uomini
in una data società non si limita a trattarli alla stregua di interazioni
tra individui prive di una qualsiasi strutturazione dell’insieme. Ad es.,
il concetto marxiano di modo di produzione definisce una intelaiatura, una mappa,
di rapporti sociali, sia pure a grana grossa, che tende a mettere in luce alcune
determinazioni decisive di date società (detto ancor meglio: di date forme
di società o formazioni sociali). Detta intelaiatura, a mio avviso, non è la “riproduzione” (una
sorta di fotografia) dei rapporti sociali secondo la loro presunta struttura “reale” in
dati periodi storici, bensì una costruzione teorica che tende a “mettere
ordine” nel caos delle innumerevoli interrelazioni tra i soggetti componenti
la società in diverse epoche (e fasi di un’epoca) storiche. La teoria
tenta di decifrare inoltre quali di simili interrelazioni sembrano essere le
più decisive, le più influenti sulle dinamiche di quella data società;
e si cerca di formulare qualche ipotesi circa la direzione di movimento e trasformazione
della stessa.
Nessuna ipotesi teorica che metta ordine può tuttavia essere definita
se non si parte dal riconoscimento che, nella interazione reciproca tra i molti
soggetti componenti la società, si sono andati formando quelli che vengono
definiti “ruoli” (le caselline della struttura pensata appunto come
la più idonea a “mettere ordine”). E’ inoltre indispensabile
trascegliere quelle che si suppongono essere le principali funzioni svolte dai
vari ruoli (e quindi dai soggetti che li occupano). Da questo punto di vista,
il costrutto marxiano di modo di produzione trasmette le seguenti informazioni:
a) l’esistenza di una struttura di ruoli e di relazioni tra ruoli, occupando
i quali gli agenti formano delle classi (grossi raggruppamenti) sociali; b) la
conseguente esistenza di funzioni cui sono adibiti tali agenti delle diverse
classi, di alcune delle quali si può predicare l’essere dominanti
e di altre l’essere dominate (eventualmente con l’indicazione di
una serie di gradini intermedi) in relazione alle decisioni riguardanti sia gli
assetti (economici, politici, ideologici, ecc.) di quella data formazione sociale
sia le dinamiche di riproduzione o trasformazione degli stessi.
In mancanza di uno “schema d’ordine” – e il concetto
di modo di produzione tale voleva essere – tutti i discorsi sulla società si
fanno generici, confusi, rinviano ad erratici (casuali) flussi di potere o ad
una sorta di psicologia degli agenti o ad una loro formazione ideologico-culturale
di incerta derivazione senza “base” alcuna; ci si limita ad una serie
di riflessioni di tipo sociologistico e/o politicistico, non certo ininteressanti,
ma che senza dubbio risentono troppo fortemente delle preferenze e predisposizioni
dei loro autori. Per questi motivi, sono contrario a ritenere ogni discorso (eminentemente
teorico) intorno alle strutture (di ruoli e funzioni) come puramente affetto
da un appesantimento d’ordine economicistico o, in altri casi, definito
spregiativamente scientista. L’essere scientificamente rigorosi è un
pregio, non un orpello fastidioso e da gettarsi alle spalle. So che è molto
impegnativo e difficile – e bisogna perderci molto tempo, è necessaria
la “lenta” riflessione e non la “meccanica” prontezza
di riflessi, che spinge spesso all’improvvisazione – ma è l’unico
modo per giungere più a fondo nella critica ai gruppi sociali, di vario
ordine e grado, che si ergono a difesa dell’attuale struttura di rapporti
tra dominanti e dominati. Anche la semplice lotta culturale – che da sola
non è comunque sufficiente a rovesciare quel sistema di rapporti di potere – viene
in ogni caso rafforzata da una rigorosa analisi dei sistemi sociali (di ruoli
e funzioni).
E’ bene tuttavia ricordare che nell’attuale fase storica, di intenso
sviluppo soprattutto tecnologico, si arriva spesso ad una deformazione parossistica
del significato della scienza. Quest’ultima si fonda su ipotesi – nate
appunto dall’esigenza di semplificare la realtà e di renderla idonea
allo sviluppo di un agire nel mondo perseguendo determinate finalità – che
non devono affatto essere fatte passare come una autentica e ormai esaustiva
rappresentazione del complessivo mondo nel cui flusso siamo immersi. Le ipotesi
sono – e devono essere sempre così ritenute – semplici schemi
d’ordine che, in un certo senso, fissano la realtà, la sua struttura
e la sua dinamica, che sono invece eminentemente mutevoli, cangianti. Lo dobbiamo
fare per agire, altrimenti ci perdiamo nel flusso degli eventi e siamo semplicemente
travolti dal loro susseguirsi, di cui non siamo in grado di cogliere le infinite
sfumature. Guai però se il presunto scienziato dichiara che quella data
ipotesi è una certezza (“matematica”). Costui non ha nulla
a che vedere con la scienza, ma solo con la prepotenza ideologica di una classe
dominante (o di sue varianti interne) in crisi, in pericolo di perdita del potere.
Gli “scienziati” diventano allora i moderni sostituti delle caste
sacerdotali di tempi assai antichi, in cui erano il supporto dei gruppi dominanti;
e spesso tendevano anche a sostituirsi a questi nei momenti di particolare crisi
di quella formazione sociale. Questo tipo di scienza va disprezzato e combattuto
e i suoi “alfieri” messi alla gogna, trattati da semplici ciarlatani.
***************
Venendo al dunque e a più modeste e attuali questioni, quando manifesto
idiosincrasia per la “sinistra”, si fraintende spesso il mio discorso,
prendendolo per umorale. Se si leggesse attentamente quanto scrivo in tema di
ipotesi relative alle diverse frazioni di dominanti e alle loro funzioni riproduttive
dell’odierno, terrificante, (dis)ordine sociale, ci si renderebbe conto
di quanto la mia idiosincrasia per questa miserabile e meschina “marmaglia” politica
sia tributaria di un’analisi del tutto realistica degli spregevoli servizi
che essa rende alle frazioni dominanti in paesi asserviti ad una potenza predominante.
La “sinistra” è un vero cancro o, se preferite, un’infezione
che, lasciata agire, porterà alla dissoluzione dell’intera nostra
società. Contro simile catastrofico pericolo non si è ancora in
grado di far sorgere una forza politica capace di espellerla dal consesso civile,
di eliminarla da ogni possibile intervento nelle decisioni di paesi che intendano
riconquistare una loro autonomia. Ci sono alcuni movimenti politici, ormai intossicati
da una sedicente democrazia basata sul “mercato elettorale”, che
credono di batterla appunto con il voto. Così essa continua ad esistere
e a spargere i suoi veleni dissolutori. Occorrerebbe invece asportare del tutto
le cellule cancerogene, usare un disinfettante di potenza risolutiva, in grado
di cancellare questa “malattia”. La mia, dunque, non è idiosincrasia, è consapevolezza
del pericolo di totale distruzione del nostro modo di vita, delle nostre tradizioni
e cultura, ad opera di agenti che sembrano agire alla guisa di Sansone: se moriamo
noi, facciamo crepare anche gli altri, distruggiamo l’intero consesso sociale.
Ancora molto tempo fa, alla fine degli anni ’60 del secolo scorso – nel
mio periodo ancora pre-althusseriano e pre-bettelheimiano – scrissi due
articoli (in “Ideologie” e nel “Che fare”, rivista diretta
da Francesco Leonetti), in cui delineavo la progressione futura del Pci in quanto
organizzazione in progressiva (e certo lenta data la “base operaia” del
partito”) rappresentanza e “servizio” di quella che designavo
allora ancora come “borghesia monopolistica”. Al di là della
rozzezza di un’argomentazione ancorata alla tradizione (si tratta del resto
di quasi mezzo secolo fa), feci una previsione molto in anticipo sui tempi, ma
potei formularla in base ad un’analisi, pur ancora rudimentale, che non
esito a definire fondamentalmente scientifica, anche se certo con i termini e
l’intelaiatura teorica (marxista) di quei tempi. Qualsiasi analisi di superficie,
culturalistica e quasi psicologistica, conduceva gli altri critici del capitalismo
a parlare, al massimo, di “deviazione” piccolo-borghese del Pci e
cose del genere. Aggiungo che subito dopo il mio ritorno dalla Francia (andai
appunto a seguire Bettelheim e la scuola althusseriana frequentando l’EPHE
a Parigi nel 1970-71), mi accadde un fatto – ebbi un contatto ben rilevante
per un “viaggio”, che poi mi rifiutai di intraprendere perché lo
pensavo più pericoloso di quanto poi capii essere in realtà – che
mi lasciò molto “pensoso” e un po’ sbalordito. Solo
pian piano, negli anni successivi, riuscii da quell’evento ad afferrare
che dovevano essere in atto alcuni contatti di un “certo tipo” per
favorire, in modo coperto e prudente, il passaggio di campo del Pci verso l’atlantismo,
processo che conobbe un momento “più scoperto” nel ’78
con il viaggio di un suo notevole esponente negli Stati Uniti, in concomitanza
con la “faccenda” Moro (in possesso, ne sono convinto, di documenti,
finiti chissà dove, comprovanti gli intendimenti di “nuove alleanze
internazionali” di quella direzione del Pci).
Non intendo tediare oltre il lettore. Invito però tutti quelli che leggeranno
queste poche pagine a meditare sull’uso a volte pretestuoso che viene fatto
di polemiche contro l’economicismo, lo scientismo, ecc. Bisogna seguire
attentamente l’evolversi dei fatti “reali”, ma non l’interpreteremo
mai nel suo, almeno realistico (non proprio REALE), andamento e nel suo significato
effettivo se non si è intenzionati ad assumersi la fatica e anche il tedio
della “fredda” scienza. La si smetta di rincoglionirsi solo con internet,
con i telefonini e altre novità tecnologiche, in evoluzione sempre più veloce
in modo da far perdere a chi la segue ossessivamente ogni capacità di
mettere per alcune ore il culo sulla sedia, leggendo vari documenti, ma essendosi
preparati a capirli e inquadrarli nel loro significato per nulla affatto trasparente
come sembra a prima vista. Si tenga inoltre presente che nelle scienze sociali
non vi sono laboratori con provette e reagenti o acceleratori di particele o
telescopi giganti, ecc. Lo scienziato sociale nemmeno può fare la verifica
delle sue teorie mediante impegno diretto e immediato in tutte le situazioni
(nei vari periodi storici e nei vari luoghi geografico-sociali) di cui ipotizza
le strutture e dinamiche evolutive.
E’ ora di smetterla con l’ossessiva alimentazione della sola prontezza
di riflessi. E’ ormai sempre più necessario riprendere ad allenarsi
con la lenta riflessione, con il montare e smontare diverse ipotesi, senza innamorarsi
di una soltanto d’esse per la noia di pensare. E anche quando si è divenuti
molto convinti di una, se ne devono cogliere le sempre non poche sfaccettature
e angolazioni dei punti di vista che esse consentono e anzi spesso impongono.
E ricordiamoci pure che nel lottare per una causa non c’è sempre
bisogno di mettere bombe e commettere atti molto spesso più che altro
negativi. E’ anche utile far funzionare il cervello che ha la straordinaria
capacità di immaginare strutture “architettoniche” in grado
di mappare, di ordinare semplificando, il “territorio” (sociale non
meno di quello naturale) in cui siamo costretti a muoverci, cercando di accrescere
l’efficacia delle nostre azioni. E’ un discorso che non termina certamente
qui.
Introduzione al pensiero marxista di Gianfranco La Grassa secondo Costanzo Preve