Lo cunto de li cunti, di Giambattista Basile. Tipi, motivi dei cunti e considerazioni V giornata.

Tipi e motivi dei cunti in accordo con Aarne e Thompson: "The types of the folk-tale" Helsinki, 1928, e in accordo con Stith Thompson:"Motif-index of folk-literature" Helsinki 1932.Da Norman Mosley Penzer, The Pentamerone of Giambattista Basile Londra 1932 con traduzione e qualche aggiunta di Salvatore La Grassa(SLG)

Online Il cunto de li cunti in dialetto napoletano a cura di Michel Rak(su letteraturaitaliana.net

Online la prefazione all'opera di Benedetto Croce e i cunti di I e II giornata con testo in dialetto conforme alla stampa del 1634

I cunti delle giornate III, IV e V con testo in dialetto conforme alla stampa del 1634


Cunto cornice o il cunto di Zoza(V giornata, 10° cunto)


Tipi:
425. Ricerca del marito perduto.
403. La sposa nera e quella bianca.
Motivi:
D849.2. Oggetto magico contenuto in una magica noce.
D926. Fonte magica.
D985. Noce magica.
D1620.0.1. Bambola automatica.
D1620.0.1.1. Bambola che fila oro.
D1620.0.1.2. Bambola automatica che balla.
D1620.2.2. La gallina automatica e la pollastra d'oro.
D1972. Il magico sonno dell'innamorato all'appuntamento.
D2006.1.9. Fidanzata dimenticata riconosciuta perchè racconta fiabe.
D2006.3. La fidanzata dimenticata attrae l'attenzione del promesso raccontando una fiaba.
D2006.3.1. Una serie di fiabe raccontate dalla sua vera moglie attira l'attenzione del marito.
H151.1. Attenzione esercitata da un oggetto magico; segue riconoscimento.
H151.12. La vera moglie costruisce casa dirimpetto al marito ed è riconosciuta.
H341. Prova per il pretendente: indurre la principessa al riso.
H341.3.1. Principessa trascinata al riso da un indecente show(mostra di pudenda)subito dopo un litigio con una vecchia donna presso una fonte.
H1235. Susseguirsi di soccorritori nella ricerca.
K1911. La falsa sposa( o sposa sostituita).
K1911.13. La falsa sposa prende il posto della vera sposa alla fontana.
K1911.1.4. La falsa sposa pone termine al compito della vera sposa e la soppianta.
K1911.3.2. La vera sposa prende casa accanto a quella del marito.
K2261. Infida persona di colore(scura di carnagione).
M411.5. La maledizione di una vecchia donna.
T22.3. Marito predestinato.
T67. Principe offerto in premio.
T67.1. Matrimonio con principe come premio per averlo disincantato.



Prologo del cunto nella traduzione di Benedetto Croce

È proverbio assodato, di quelli di antico conio, che chi cerca quel che non deve, trova quel che non vuole; e si sa che la scimmia, per calzarsi gli stivali, restò presa pel piede. E cosi accadde a una schiava stracciona, che, non avendo mai portato scarpe ai piedi, volle porsi la corona sul capo. Ma poiché la mola spiana tutte le scabrezze, e viene un giorno che tutto si sconta, colei che per mala via aveva usurpato quel che spettava ad altri, incappò finalmente nella ruota dei calci(1) e quanto più in cima era salita, tanto maggiore fece il capitombolo; come si narra in questo libro.
C’era una volta un re di Vallepelosa, che aveva una figliuola chiamata Zoza, la quale, come fosse nuovo Zoroastro o nuovo Eraclito, mai non si vedeva ridere. Il misero padre, che non aveva altro spirito che quest’unica figliuola, non tralasciava cosa alcuna per toglierle la malinconia, e faceva venire, per stuzzicarla a ridere, ora quelli che camminano sulle mazze, ora quegli altri che s’infilano nei cerchi, ora i mattaccini(2), ora mastro Ruggiero(3), ora i giocatori di destrezza, ora le forze d’Èrcole(4), ora il cane che balla, ora bracone(5) che salta, ora l’asino che beve al bicchiere, ora Lucia canazza(6), e ora questo e ora quello. Ma era tempo perso, ché neppure il rimedio di mastro Grillo(7), neppure l’erba sardonica, neppure una stoccata nel diaframma le avrebbe increspato al più leggiero sorriso la bocca. Il povero padre, non sapendo che cos’altro tentare, per un’ultima prova dié ordine che si aprisse dinanzi alla porta della reggia una grande fontana d’olio, con questo pensiero che la gente, che per quella strada passava in viavai come formiche, allo schizzar dell’olio, per non ungersi i vestiti, avrebbe fatto salti di grillo, sbalzi di caprio e corse di lepre, scivolando e urtandosi, e a questo modo qualche caso sarebbe nato da eccitare la figliuola a uno scoppio di riso.
Aperta dunque questa fontana, e stando Zoza alla finestra, cosi ben composta che pareva tutta aceto(8), venne per avventura una vecchia, che assorbendo con una spugna l’olio, lo spremeva in un suo orciuolo. E mentre, dandosi un gran da fare, eseguiva intenta questa operazione, un diavoletto di paggio della corte tirò un sassolino cosi a segno che, colpito l’orciuolo, lo ridusse in frantumi. La vecchia, che non aveva
peli sulla lingua, nè era usa a portare alcuno in groppa, rivoltasi al paggio, prese a dirgli: «Ah, moccicoso, frasca, merdoso, piscialetto, salterello di cembalo, falda al culo(9), cappio d’impiccato, mulo bastardo! Ecco che anche le pulci hanno la tosse! Va’ che possa coglierti il parietico! Che tua madre ne riceva la mala notizia! Che tu non veda il primo di maggio!(10) Che ti sia data una lanciata catalana!(11), o una strozzatura di fune, che non ne scorra sangue! Che ti vengano mille malanni a vele gonfie! Che se ne disperda la semenza, furfante, guitto, figlio di donna ingabellata(12), mariuolo!».
Il ragazzo, che aveva poco pelo sulle guance e minor discrezione, sentendosi cascar addosso questa intemerata coi fiocchi, la ripagò della stessa moneta: «Non vuoi turare cotesta chiavica, avola di Parasacco(13), strega succhiasangue, soffocabambini, cacapezze, faccia da scoregge?». La vecchia, all’udir queste notizie di casa sua, montò in tanta stizza, che, perdendo la bussola della flemma e scapolando dalla stalla della pazienza, alzato il telone dell’apparato, fece vedere la scena boschereccia, nella quale Silvio poteva dire: «Ite svegliando gli occhi col corno»(14).
Al quale spettacolo, Zoza fu presa da un cosi forte impeto di riso, che stette per venir meno. La vecchia, al suono di questa beffa, arrabbiò e, girando
verso Zoza un ceffo da sbigottire: «Va’! — le disse — che tu non possa trovare ombra di marito, se non prendi il principe di Camporotondo!».
La principessa, udite tali parole, la fece chiamare e volle sapere per ogni conto se avesse voluto dirle ingiuria o gettarle una bestemmia. E la vecchia le rispose: « Sappiate che il principe che ho nominato è una leggiadra persona e si chiama Taddeo, che per la imprecazione di una fata ha dato l’ultimo tocco al quadro della vita ed è stato posto in una tomba fuori le mura della città. Su quella tomba è una scritta che dice che qualsivoglia donna colmerà di pianto in tre giorni un’anfora, che si vede colà appesa a un uncino, lo farà risuscitare e lo prenderà per marito. Ma è impossibile che
due occhi umani possano pisciare tante gocce da far colma un’anfora che contiene mezzo staio (se non fosse, come ho udito raccontare, quella Egeria, che si fece a Roma fontana di lacrime(15), e perciò io, al vedermi dileggiata e beffata da voi, vi ho dato questa bestemmia, e prego il Cielo che riesca a pieno, per vendetta dell’ingiuria che m’è stata fatta».
Ciò detto, sguisciò per la gradinata in giù, paurosa di qualche bastonatura. Nello stesso punto, Zoza cominciò a ruminare e masticare le parole della vecchia, lo spirito tentatore le entrò nella testa, e, volgendo una ruota di pensieri e un mulino di dubbi intorno a questo fatto, in ultimo, tirata col carro di quella passione che acceca il giudizio e incanta il raziocinio dell’uomo, dopo aver preso una manata di scudi dagli scrigni paterni, sguisciò
anch’essa fuori del palazzo regale. E tanto andò che giunse al castello di una fata, e, avendo con lei sfogato il suo cuore, quella, per compassione di cosi bella giovane, alla quale erano due sproni a spingerla in un precipizio la poca età e l’amore prepotente di cosa non conosciuta, le dié una lettera di raccomandazione per una sua sorella, anche fatata. Questa la accolse con molti complimenti; e il giorno dopo, al sorger dell’alba, quando la Notte fa gettare il bando dagli uccelli promettendo buona mancia a chi le recherà notizie di un branco d’ombre nere sperdute, le porse una bella noce, dicendole: « Prendi, figliuola mia, e tienila cara, e non aprirla se non in momento di gran bisogno»: e con un’altra lettera la raccomandò a una terza sorella. Presso la quale, giunta dopo lungo viaggio e ricevutene le medesime amorevolezze, ebbe ancora una lettera per una quarta sorella, e una castagna, e lo stesso avvertimento che le era stato dato per la noce. Cammina ancora e giunge al castello dell’ultima fata, che le fa mille carezze, e la mattina, al partirsi, le consegna una nocciuola, con la stessa protesta di non aprirla se proprio la necessità non la scannava.
Avute queste cose, Zoza si mise la strada fra le gambe, e per tanti paesi girò, tanti boschi e fiumane passò, che, dopo sette anni — proprio nel momento in cui il Sole ha insellato il cavallo per correre le solite poste, svegliato dalle cornette dei galli, — arrivò quasi spedata a Camporotondo. Qui, prima di entrare nella città, scorse il sepolcro di marmo, a piè di una fontana, la quale, a causa di vedersi rinserrata in una carcere di porfido, piangeva lacrime di cristallo. Ed essa tolse l’anfora, che trovò appesa, e, recatasela tra le gambe, cominciò a rappresentare la commedia dei Due simili, lei di sotto e la fontana di sopra, non levando mai il capo dalla bocca dell’anfora; sicché, in men di due giorni, era giunta a due dita sul collo e non mancavano neppure altre due e sarebbe stata colma. Ma, prima di compiere quest’ultimo stillamento, stanca dal tanto piangere, fu, senza che potesse resistere, ingannata dal sonno, e costretta a ritirarsi per un paio d’ore sotto la tenda delle palpebre.
In quel mezzo una certa schiava gamba-di-grillo, che spesso si recava alla fontana ad attingere con un barile e che sapeva la faccenda dell’epitaffio, ché se ne parlava dappertutto, avendo visto Zoza versare tanto pianto che scorreva in due rivoli, stette a spiare, finché l’anfora fosse a buon punto, per toglierle di mano il lavoro e farla restare con un pugno di mosche. E ora che la vide addormentata, le trasse destramente dal grembo l’anfora, e, chinativi sopra gli occhi, in quattro strizzate la riempi a ribocco. Non si tosto fu colma, il principe, come se si svegliasse da un gran sonno, si levò da quella cassa di bianco marmo e diè di piglio a quella massa di carne nera. E, subito traendola al suo palazzo, con feste e luminarie meravigliose, la rese sua moglie.
Svegliatasi Zoza, e trovando l’anfora a terra, e con l’anfora le speranze sue, e vedendo aperta la tomba, il cuore le si chiuse in modo che stette sul punto di sballare i fagotti dell’anima sua alla dogana della Morte. Ma, infine, poiché al male non c’era rimedio, ed essa non poteva lamentarsi d’altro
che degli occhi suoi che non avevano ben guardato la vitella delle sue speranze(16), s’avviò a lento passo per dentro la città. Dove, udito delle feste del principe e della bella qualità di moglie che s’era presa, immaginò senz’altro come il fatto era passato e disse, sospirando, che due cose nere l’avevano posta sulla nuda terra, il sonno e una schiava. Nondimeno, per tentare tutto quanto era possibile contro la morte, dalla quale ogni animale si difende il piu che può, tolse a pigione una bella casa di fronte al palazzo del principe, donde, se non le riusciva di vedere l’idolo del suo cuore, contemplava almeno le mura del tempio in cui si chiudeva il bene da lei desiderato.
Ma un giorno, avendola notata Taddeo, il quale, come pipistrello, volava sempre attorno a quella nera notte della schiava, divenne aquila a guardar sempre fiso nella persona di Zoza, che era l’eccesso dei privilegi della natura e il «mi chiamo fuori»(17) dai termini della bellezza. Di ciò avvedutasi la schiava, fece un chiasso di casa del diavolo, e, incinta com’era, minacciò il marito con dirgli: «Se finestra non levare, mi pugni a ventre dare e Giorgetiello acciaccare!». Taddeo, tenero della sua prole, tremando come giunco per timore di darle alcun disgusto, si strappò, come anima dal corpo, dalla vista di Zoza.
Costei, venendole meno anche quel po’ di ristoro alla debolezza delle sue speranze, non sapendo alla prima qual partito prendere, in tale estrema necessità si sovvenne dei doni delle fate. Apri la noce, e ne usci un nanetto grande quanto un bamboccetto, la più graziosa figurina mai vista al mondo, che si pose alla finestra e cantò con tanti trilli, gargarismi e passavolanti da sembrare un compar Biondo, da superare Pezzillo e da lasciarsi addietro il Cieco di Potenza e il Re degli uccelli. Per caso lo vide e lo udì la schiava, e se ne invaghì di maniera che, chiamato Taddeo, gli disse: «Se non avere quel piccoletto che cantare, mi pugni a ventre dare e Giorgetiello acciaccare!». Il principe, che s’era fatto metter la barda da bernaguallà(18), mandò subito a chiedere a Zoza se glielo voleva vendere; e Zoza rispose che non era mercantessa, ma che, se lo accettava in dono, lo prendesse pure, ché ben volentieri gliene faceva presente. Taddeo, che era sempre in affanno per tener contenta la moglie affinché portasse a luce il parto, accettò l’offerta.
Di là a quattro giorni, Zoza apri la castagna e ne venne fuori una chioccia con dodici pulcini d’oro, che, posta sopra la stessa finestra e vista dalla schiava, la trafisse di una voglia acutissima; onde, chiamato Taddeo e additandogli quella cosa cosi bella, gli disse: «Se quella chioccia non pigliare, mi pugni a ventre dare e Giorgetiello acciaccare!». E Taddeo, che si lasciava intimorire e dominare da cotesta cagna turchesca, mandò di nuovo a Zoza a
offrirle quel che le piacesse domandare per prezzo di cosi bella chioccia. E ne ebbe la stessa risposta dell’altra volta, che se l’avesse pure presa in dono, perché, a trattare in termini di compravendita, sarebbero state parole al vento. E lui, che di meno non poteva farne, lasciò che necessità scacciasse discrezione, e, portandosi via questo bel boccone, rimase stupito della liberalità di una femmina, sesso di natura cosi avido che non gli basterebbero tutte le verghe d’oro che vengono dalle Indie.
Passarono altrettanti giorni e Zoza apri la nocciuola, dalla quale usci una bambola che filava oro, cosa veramente da strasecolare, che non appena fu posta alla medesima finestra e dié nell’occhio alla schiava, questa chiamò ancora Taddeo e gli ripetè la solita musica: «Se bambola non comprare, mi pugni a ventre dare e Giorgetiello acciaccare». E Taddeo, che si faceva girare come arcolaio e menar pel naso dalla superbia della moglie, da cui si era lasciato cavalcare, non avendo animo di mandare a Zoza per la bambola, volle andarvi di persona, ricordando i motti: «Non c’è miglior messo di te stesso»; « Chi vuole vada e chi non vuole mandi»; e «Chi pesce vuol mangiare, la coda si vuol bagnare». E, pregandola grandemente di perdonare l’impertinenza ai desideri di un’incinta, Zoza, che se ne andava in solluchero alla presenza della cagione dei suoi travagli, fece forza a sé stessa e si lasciò pregare e strapregare per trattenere la voga della barca e godere maggior tempo della vista del signor suo, furatogli da una brutta schiava. Alla fine, concedendogli la bambola come aveva fatto delle altre cose, prima di consegnargliela, soffiò a quella figurina che avesse messo in petto alla schiava la voglia di udire raccontar fiabe. Taddeo, che si vide la bambola in mano, senza sborsare nemmeno un callo(19), restò interdetto per tanta cortesia, le offrì stato e vita in cambio di quel favore e, tornato al palagio, porse la bambola alla moglie.
La schiava se la recò in grembo per prenderne trastullo; ed ecco che subito quella parve Amore in forma di Ascanio in grembo a Didone, che le accese il fuoco in petto(20); perché cosi caldo desiderio sorse nella schiava di udire fiabe che, non potendo resistere e dubitando di toccarsi la bocca e fare figli cosi queruli da infastidire un’intera nave di pezzenti(21), chiamò al solito il marito e gli ripetette ancora: «Se non venire gente e fiabe contare, mi pugni a ventre dare e Giorgetiello acciaccare!».
Taddeo, per togliersi dattorno questa molestia(22), ordinò di gettare un bando, che tutte le donne del paese fossero venute a lui in un dato giorno. E in quel giorno, allo spuntar della stella Diana, che sveglia l’Alba ad ornare le strade per cui deve passeggiare il Sole, tutte si trovarono al luogo destinato. Ma, non piacendogli di tenere impedita tutta quella marmaglia per un gusto particolare della moglie, oltre che soffocava a vedere tanta folla, scelse in essa solamente dieci, le migliori della città, che gli parvero le più svelte e chiacchierine; e furono Zeza sciancata, Cecca storta, Meneca gozzosa, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa, Ciulla musuta, Paola scerpellata, Ciommetella tignosa e Iacova squarquoia(23). E, scritti questi nomi su una carta e licenziate le altre, egli e la schiava si levarono di sotto al baldacchino e s’avviarono con passo misurato a un giardino dello stesso palazzo, dove i rami fronzuti erano tanto intricati che il Sole con la pertica dei raggi non poteva spartirli. E, sedutisi sotto un padiglione coperto di una pergola d’uva, in mezzo al quale scorreva una grande fontana (maestra di scuola ai cortigiani, che ogni giorno istruiva nell’arte di mormorare), Taddeo cosi parlò:
« Non è cosa più appetitosa al mondo, femmine mie rispettabili, che il sentire i fatti altrui, né senza ragione veduta quel gran filosofo(24) mise l’ultima felicità dell’uomo nell’ascoltare racconti piacevoli; perché, porgendo l’orecchio a cose di gusto, svaporano gli affanni, si dà lo sfratto ai pensieri fastidiosi e si prolunga la vita. Vedi, per tal desiderio, gli artigiani lasciare i fondaci, i mercanti i negozi, i dottori le cause, i bottegai le faccende, e andare a bocca aperta per le barbierie e pei circoli di chiacchieroni a udir novelle false, avvisi inventati e gazzette in aria(25). Debbo dunque scusare mia moglie se si è messa in capo quest’umor malinconico di ascoltar fiabe. E se vi piace di dare in brocca al desiderio della mia principessa e di colpire al centro delle voglie mie, sarete contente, per quattro o cinque giorni che ancora tarderà a sgonfiare la pancia, di raccontare ogni giorno ciascuna di voi una fiaba di quelle che le vecchie sogliono dire per trattenimento dei bambini. Vi troverete sempre al luogo stesso, dove prima si mangerà, poi si darà principio alle chiacchiere, e la giornata sarà terminata da qualche egloga che si reciterà dai nostri stessi sfrattapanelle(26); e cosi passeremo allegramente la vita, e tristo chi muore!».
A queste parole tutte accettarono con un cenno del capo il comando di Taddeo; e intanto, poste le tavole e venuto il cibo, si misero a mangiare, e, finito d’ingozzare, il principe fece cenno a Zeza sciancata, che desse fuoco al pezzo. Zeza, fatto un grande inchino al principe e alla moglie, cosi incominciò a parlare.


Conclusione del Cunto

Tutti stettero con gli orecchi tesi ad ascoltare il racconto(I Tre cedri) di Ciommetella; e alcuni lodarono il sapere con cui l’aveva recitato, altri mormorarono, accusandola di poco giudizio, che non doveva, alla presenza di una principessa schiava mora, manifestare i vituperi di un’altra della stessa razza, e che perciò s’era posta a gran rischio di guastare il gioco. Ma Lucia fece veramente da Lucia(27), dimenandosi tutta, mentre si narrava il racconto; sicché dall’irrequietezza del corpo era dato congetturare la burrasca che le soffiava nel cuore, avendo visto nella storia di un’altra schiava il racconto preciso degli inganni suoi. Ed avrebbe fatto cessare la conversazione; ma, in parte perché non poteva far di meno dei racconti, tanto fuoco
le aveva messo in seno la bambola, al modo stesso che colui, che è morso dalla tarantola, non può astenersi dai suoni(28), e in parte per non dar materia di sospetti a Taddeo, s’inghiottì questo torlo d’uovo con disegno di farne a tempo e a luogo buon risentimento. Ora, Taddeo, al quale il passatempo dei racconti era entrato in grazia, accennò a Zoza che dicesse il suo; ed essa, dopo i soliti complimenti, incominciò:
« La verità, signor principe, fu sempre madre dell’odio; e perciò non .vorrei che l’obbedire ai comandi vostri offendesse alcuno di quelli che sono qui presenti; perché, non essendo usa a fingere invenzioni e a tessere favole, sono costretta, per natura e per accidente, a dire fatti veri. E, quantunque il proverbio dica: ‘Piscia chiaro e fa’ le fiche al medico’(29), tuttavia, sapendo che la verità non è ricevuta alla presenza dei principi, io tremo di dire cosa che vi faccia forse montare i fumi della collera».
« Di’ quello che vuoi — rispose Taddeo, — ché da questa bella bocca non può uscire niente che non sia inzuccherato e dolce».
Queste parole furono pugnalate al cuore della schiava, e ne avrebbe mostrato segno, se le facce nere fossero, come le bianche, libro dell’anima, e avrebbe pagato un dito della mano a esser digiuna di quei racconti, perché il cuore le si era fatto più nero della faccia, e, dubitando che il racconto passato non fosse stato prima annunzio e poi malanno, dal mattino previde il cattivo giorno.
Ma Zoza, in questo mezzo, cominciò a incantare i circostanti con la dolcezza delle parole, raccontando dal principio alla fine tutti gli affanni suoi, a cominciare dal punto della naturale malinconia sua, infelice augurio di quello che doveva accaderle, perché essa aveva portato sin dalla culla l’amara radice di tutte le crudeli sciagure, le quali, servendosi della chiave del suo riso sforzato, la sforzarono a tante lacrime. Seguitò poi con la bestemmia della vecchia, col pellegrinaggio suo accompagnato da tanta angoscia, con l’arrivo alla fontana, e il piangere dirotto, e il sonno traditore, che fu la sua rovina.
La schiava, sentendola prendere largo e tira, e vedendo male avviata la barca, gridò: «Stare zitta, turare; se no, pugni a ventre dare e Giorgetiello acciaccare!». Ma Taddeo, che aveva scoperto paese, non ebbe più flemma, e, toltasi la maschera e gittando la barda in terra, disse: «Lasciala raccontare fino in fondo e non fare più coteste rapine di cappa con Giorgetiello e Giorgione, perché, infine, non mi hai trovato solo(30), e, se mi monta la senapa, meglio che ti avesse schiacciata una ruota di carro». E comandò a Zoza che seguitasse a dispetto della moglie; ed essa, che non voleva altro che il cenno, seguitò narrando come avesse trovato rotta l’anfora e l’inganno usato dalla schiava nel levargliela di mano; e, cosi dicendo, scoppiò a piangere di maniera, che non fu nessuno dei presenti che stesse saldo allo schianto.
Taddeo, dalle lacrime di Zoza e dal silenzio della schiava, che era ammutolita, comprese e pescò la verità del fatto; e, somministrata a Lucia tale strigliata di capo che non si farebbe a un asino, e costrettala a confessare con la propria sua bocca il tradimento, dié subito ordine che fosse sepolta viva, con la sola testa allo scoperto affinché la morte sua fosse stentata.
E, abbracciando Zoza, le fece rendere onore come a principessa e moglie sua, e mandò avviso al re di Vallepelosa che venisse alla festa. Con queste nuove nozze, terminò la grandezza della schiava e il trattenimento dei racconti; e buon prò e sanità vi faccia, ché io me ne venni via, passo passo, con un cucchiaietto di miele.


NOTE 1) Giuoco che si fa dai fanciulli, tenendosi l’un l’altro per mano in cerchio, e respingendo col moto dei piedi uno di loro che si sforza di entrare: chi lo lascia entrare, va lui fuori del cerchio.
2) Giocolieri e saltatori mascherati, che, dice il CARO (Apologia, in Opere, ediz. Le Monnier, p. 201), «per far meglio ridere vanno con quella camicia pendente e con le calze aperte, facendo delle berte».
3) Cantante popolare e capo di suonatori, ricordato anche dal Del Tufo, dal Cortese e dallo Sgruttendio. Dié il nome a una sorta di ballo.
4) Giuochi ginnastici.
5) Cosi si chiamava la scimmia ammaestrata, che i giocolieri esibivano in piazza.
6) II ballo della «Lucia» o della «Sfessania», introdotto a Napoli e che si diceva proveniente da Malta.
7) Fu molte volte ristampata l’Opera nuova piacevole et da ridere de un villano lavoratore nomato Grillo quale volse diventar medico, in rima istoriata (Venezia, 1521, e sgg.). Questo Grillo, tra l’altro, con certo strano mezzo, guariva una figliuola del re, procurandole una gran risata.
8) «Composta» è il nome dato nel Napoletano alle cose in aceto o «sottaceti», come anche si chiamano: donde il bisticcio.
9) Detto di un fanciullo che aveva, come si usava, un’apertura fatta dal sarto nel calzoncino nelle parti posteriori, dalla quale veniva fuori il bianco lembo della camicia.
10) Giorno di festa popolare.
11) PORTA, Tabemaria, I, 1: «Che te sia data stoccata catalana a la zizza manca». Correva in proverbio l’efficacia micidiale delle armi catalane.
12) Le meretrici pagavano in Napoli, a quel tempo, la gabella di due carlini al mese. Si veda il TOPPI, De origine tribunalium (Napoli, 1655-59), H> 35; e le Prammatiche, collezione Giustiniani, titolo CLXXII. 6.
13) Nome del diavolo o di altro spirito maligno, di cui le balie si valgono per intimidire i bambini, quasi apra il sacco per cacciarveli dentro e portarli via.
14)GUARINI, Pastorfido, I, i: «Ite svegliando Gli occhi col corno e con la voce i cori».
15) La ninfa Egeria, morto il re Numa, lo pianse tanto che Diana la trasformò in una fonte.
16) Allusione alla favola di Argo e della vacca Io, furatagli da Mercurio.
17) La figura è tolta da certi giuochi di carte, in cui chi ha raggiunto i punti richiesti per vincere, getta sul tavolino le carte che gli restano, dicendo: « Mi chiamo fuori».
18) Cioè, dalla schiava moresca «Bernaguallà», uno degli epiteti dati alla Lucia nel ballo della «Sfessania», di costume barbaresco.
19) « Uno dei centoventi a carlino»: cioè un callo, uno dei centoventi calli, o cavalli, di cui si componeva un carlino. Un «callo» era, dunque, modo proverbiale per dir un valore minimo.
20) VIrgilio, Eneide, I, 685 sgg.
21) Si riferisce alla credenza volgare che le donne incinte, quando desiderano e non possono ottenere alcuna cosa, se per caso si toccano in una parte del corpo, nella parte corrispondente del corpo del bambino verrà impresso il segno (la voglia) della cosa desiderata. E qui la schiava temeva che, se si fosse toccata la bocca, il suo bambino sarebbe nato con la disposizione al querulo richiedere, che era nell’animo della madre.
22) « Questa cura di marzo», dice il testo. Sul mese di marzo e i difetti e torti che gli si attribuivano, c'era fra l'altro la credenza che a marzo i malati di sifilide soffrissero di più.
23) Parecchi di questi diminutivi sono ora in disuso: «Zeza», Lucrezia; « Tolla», Vittoria; «Popa», Porzia; «Ciulla», Giulia; «Ciommetella», Girolama.
24) Aristotele: ma la citazione è certamente burlesca.
25) « Avvisi» si dicevano allora i giornali manoscritti, e talora anche i dispacci degli agenti diplomatici; e «gazzette» i giornali a stampa, che allora cominciavano ad apparire.
26) Cioè, domestici. Ai servitori si davano a principio di settimana sette pani (il pane si coceva il sabato e tale distribuzione aveva luogo la domenica) per sette giorni; donde l’altro loro nome di «settepanelle».
27) Cioè, eseguì il ballo della Lucia, con le contorsioni relative.
28) Le persone morse dalla tarantola venivano curate con un ballo simbolico.
29) "fare una fico" è un antico gesto di scongiuro diffuso in molte aree italiane, analizzato da A. de Jorio in La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano, Napoli 1832.
30) Sottintendi: «perché io ho le mani».

I cunti della quinta giornata



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