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Francesco La Grassa:
insigne costruttore di organi liturgici

L'ascesa di Francesco La Grassa
Ma interessiamoci di Francesco La Grassa. A 15 anni costruì il primo organo e lo vendette a un parrocco di campagna per la sua chiesa. Grazie alla sua naturale disposizione per il lavoro meccanico, sempre a 15 anni, eseguì l'impianto completo di un mulino ad acqua per un orfanotrofio presso Monreale.  A 25 anni vantava già la costruzione  o la rimessa in opera di una ventina di organi . Nel 1827 fino al 1833 lavorava tra Sciacca e Agrigento. Nel 1836 inizia il suo capolavoro, il monumentale organo a disposizione simultanea di tre organisti nella collegiata di S.Pietro a Trapani, organo ultimato nel 1842. In questa impresa fu stimolato dal canonico Floria di Trapani e dall'arciprete Vito Mauro che gli diedero libertà di azione senza limiti di spesa purchè riuscisse un organo superbo.
Ed in effetti nell'organo di S. Pietro non vi è strumento che non sia stato imitato:dagli ottoni di fanfara alle trombe di banda di tutte le grandezze con le derivazioni dei bassi, tromboni, bombarde e bombardino; i corni e le cornette, gli oboe e i fagotti, i sax e i saxfoni, i clarini e i claroni, i tamburi a rullo e a pedale, la grancassa e i piatti, il sistro e i campanelli(per quanto riguarda gli strumenti di banda). E poi i violini, le viole, i violoncelli, bassi e contrabassi degli strumenti a corda(come completamento degli strumenti d'orchesta). E poi ancora altri strumenti liturgici fra cui la cornamusa, i pifferi di montagna,  la voce umana e, il più caratteristico, lo strumento angelico che imita il suono dello strumento a percussione omonimo con tasti di cristallo. Anche la forma esteriore dell'organo ovvero l'architettura della facciata è stata progettata da Francesco La Grassa, così come sono stati scolpiti da lui stesso i diversi simboli allegorici degli strumenti musicali. Di Francesco La Grassa in relazione soprattutto all'organo di S. Pietro c'è da dire che egli ne fu il "faber", il braccio e la mente. Egli non fu un comune accozzatore di elementi confezionati da fabbriche diverse. Fu l'operaio eccellente di ogni singola arte: fu falegname, tornitore, ebanista, fabbro, fonditore, meccanico, lavoratore delle pelli per la costruzione dei mantici, fabbricante dei tasti delle tastiere, stagnaro e fu soprattutto accordatore esimio.   La Cerere, rivista di musicologia, il 4 gennaio 1845, cosìlo celebrò: "In quest'opera grandiosissima si ammira non solamente la perizia dell'artista nel costruire, ma eziandio il suo vastissimo ed acutissimo ingegno nell'inventare.....l'organo maestoso d'aspetto, d'ordine dorico, contiene 5000 canne di differenti metalli e legni, alle quali , corrispondono sette tastiere, di cui tre si trovano nel centro ciascuna di tasti 70 con una tastiera corrispondente di 27 pedali. Le altre quattro tastiere, di 54 tasti, sono disposte a due a due per ciascun arco minore, ed ognuna di esse ha una pedaliera di dodici tasti. Ottanta registri, corrispondenti a tutti gli strumenti della banda militare e dell'orchestra sinfonica, modulano l'artificioso intreccio nello strumentale, che si alimenta con otto grandiosi mantici. Non meno ingegnosa fu la riforma dell'antica piva, che ha deposto il suo suono stridulo ed è divenuta perfetta nell'accordio. Queste e moltissime altre invenzioni nella modulazione delle diverse voci dei registri, che con poche parole non possono descriversi, rendono  Francesco La Grassa Sclafani celebre e degno di essere annoverato tra i primi artisti, non solamente della nostra Sicilia, ma di tutta l'Europa."
Di questo organo sta per essere ultimato il restauro e di ciò riferisco in un'altra pagina.
Damiano Di Pasquale, che fu organista della chiesa di San Francesco di Paola (l'organo di questa chiesa era stato ricostruito da Francesco La Grassa), così parlò dell'organo di San Pietro in Trapani nella sua "Storia dell'arte organaria in Sicilia dal secolo XV al secolo XX" edita nel 1928: "l'ingegno di questo artista La Grassa fu, più che portentoso, singolare....l'organo è regolato da un giuoco portentoso di multiple serie di leve; è uno studio di meccanica che fa sbalordire, dato l'epoca e i mezzi di cui allora si disponeva." Lo stesso Di Pasquale, esperto organista, conoscitore nella pratica degli organi antichi e di quelli moderni, nonostante rilevasse negli organi del fabbricante palermitano(abitante in Via Sedie volanti 24) i difetti tipici di tutti gli organi con molteplici tastiere quando ancora non c'era l'ausilio delle pneumatiche e delle trasmissioni elettriche(il difetto consisteva nel fatto che unendo le varie tastiere fra loro, non si può eseguire un passo rapido, poichè per quanto bene applicati i punti di leva, rimane sempre a vincere la resistenza, per esempio,  anche di sette tasti-quante le tastiere dell'organo di S.Pietro-quando si preme un solo tasto, oltre alla resistenza dell'aria), riteneva che Francesco La Grassa sarebbe rimasto, negli annali della storia organaria, il più grande artefice che abbia dato la Sicilia, l'Italia e il mondo intero.
Francesco La Grassa, a mio modesto avviso, riuscì dove altri non erano riusciti, perchè, poco condizionato da cultura organaria in senso scolastico(che non aveva), si fece guidare dalla sua intuizione e dalla sua inventiva. I suoi organi sono unici perchè costruiti con metodi che lui stesso aveva inventato o molto spesso reinventato(un esempio per tutti: anche gli strumenti di lavoro Francesco La Grassa li fece da sè o li modificò per trarne maggiore profitto). Francesco La Grassa diede un'impronta assolutamente originale ai suoi organi o meglio a quegli organi che egli rifece o quasi di sana pianta. E in certo senso trovò un ambiente favorevole in cui la sua inventiva e la sua vena artistica poterono esplicarsi.
Intanto Francesco La Grassa nel 1845 presenta un progetto per la costruzione dell'organo della Cattedrale di Monreale. Altri costruttori presentano il loro progetto e fra questi c'è pure quello presentato dalla ditta formata da Salvatore La Grassa, suo figlio Francesco e Antonio Ragonese. Purtroppo ambedue i progetti vengono scartati. Viene alla fine scelto, più per volontà del Re Ferdinando II, che per decisione degli esperti, il progetto della ditta Felice Platania di Acireale(gli esperti avevano indicato quello della ditta Serassi di Bergamo, soprattutto perchè dava più garanzie). Per la cronaca va detto che l'organo costruito da Felice Platania per la Cattedrale di Monreale aveva tre tastiere, 45 registri e 2194 canne(mentre il primo progetto, sempre del Platania,   prevedeva 5 tastiere, 65 registri e 3016 canne). Il prezzo pattuito fu di 6000 ducati, equivalenti a 2000 onze(1). Come garanzia Felice Platania promette, nel caso fosse provata qualche imperfezione o l'uso di materiale scadente, la somma di 5000 ducati che avrebbe potuto recuperare solo quando avesse eliminato a suo spese ogni difetto e imperfezione.
Ma se a Monreale non ebbe successo, Francesco La Grassa fece di tutto per averlo nella vicina abbazia di San Martino delle Scale. Quì fu chiamato per presentare un progetto di ricostruzione totale dell'organo grande. Due anni prima un progetto di restauro generale presentato da Basilio Alfano non aveva trovato il consenso dei monaci. Ma il progetto di Francesco La Grassa fu ben accolto e nel 1852 fu firmato l'atto relativo. Le tastiere erano 5, con 61 tasti cadauna, tre al centro con relativa pedaliera e le altre due tastiere ai lati con relative pedaliere e registrature per esecuzioni organistiche collettive. Le canne erano 3150 circa, i registri più di 60. Il costo totale fu di circa 1200 onze comprese le 150 onze relative alla garanzia e alla manutenzione. Infatti la garanzia di Francesco La Grassa fu di prim'ordine. Egli si obbligava per la durata di anni 10 dalla consegna dell'organo ad eseguire a sue spese qualumque variazione di canname, registri rotti, ed altro potesse occorrere, senza pretendere compenso alcuno nè di vettura, trasporto o altro; e si obbligava ad accordare il detto organo e di accorrere in S.Martino ogni qualvolta fosse richiesto: il solo compenso che chiedeva per questo tipo di garanzia(oggi nemmeno concepibile se non per gli immobili di gran pregio) era di 15 onze annuali, da pagare posticipate in 12 rate mensili.
Indubbiamente l'abbazia di San Martino ebbe un organo superiore per sonorità, potenza e soluzioni fantasiose di effetti speciali a quello della Cattedrale di Monreale, ed inoltre ebbe un costo minore, più ammortizzato e la sicurezza che per 10 anni non ci sarebbero stati altri esborsi . Purtroppo nel 1913 l'organo di San Martino di Francesco La Grassa doveva, come tanti altri organi, ridursi a poca cosa. Infatti il palermitano Giacinto Micales, in omaggio ai principi moderni della riforma liturgica, lo riduceva a un organo di due tastiere e 21 registri.
Altro organo importante di Francesco La Grassa fu quello per San Francesco di Paola di Palermo. Definito nel 1859 questo organo aveva tre tastiere di 61 tasti ciascuna. Quest'altro organo fu ricostruito dalla ditta Laudani e Giudici nel 1933 con l'impiego di materiale fonico della preesistente macchina musicale di Francesco La Grassa. Altri organi costruiti da Francesco La Grassa furono quelli per la chiesa madre di Sciacca(1827 ca.) e per S. Michele(1832) sempre a Sciacca, e quello per il Collegio di Maria in Santa Margherita(Agrigento 1831). E quasi certamente pure quello della Chiesa della Badia in Carini. Francesco La Grassa morì a Cammarata(PA) il 19 novembre del 1868.

(1) onze o oncie siciliane e ducati napoletani:
In epoca borbonica c'era un sistema monetario siciliano e un sistema monetario napoletano. L'onza o l'oncia era l'unità per il conteggio della moneta in Sicilia. L'oncia a sua volta si divideva in trenta tarì, il tarì in venti grani e il grano in sei piccoli o denari.
Nel sistema napoletano l'unità di moneta era il ducato, il quale si divideva in dieci carlini, il carlino in dieci grani, ed il grano in dodici cavalli o calli.
Carlo III, divenuto signore dei regni di Sicilia e di Napoli, volle che le monete dei due sistemi potessero equipararsi. Perciò col dispaccio del 17 agosto 1735 e meglio ancora con la legge del 29 dicembre 1745 ordinò che il carlino napoletano risultasse uguale al tarì siciliano: sicchè il ducato divenne la terza parte dell'oncia.
Per comprendere il valore intrinseco approssimativo dell'oncia ci viene incontro Giovanni Verga, massimo scrittore verista italiano. Nel suo "Mastro Don Gesualdo", ambientato in Sicilia tra il 1820 e il 1848, viene riportato l'episodio della vendita all'asta delle terre comunali. I notabili locali ritengono giusto pagare una salma di terreno, cioè circa mq. 17000, circa tre oncie . Mastro Don Gesualdo, invece, portò il prezzo di ogni salma, rilancio dopo rilancio, a 6 oncie e 15 tarì.
Da considerare che sicuramente allora i terreni vincolati all'agricoltura o alla pastura avevano un valore intrinseco inferiore al valore che queste terre hanno oggi dopo il boom demografico e dopo continue e reiterate sanatorie per le costruzioni abusive.

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