Lo cunto de li cunti, di Giambattista Basile. Tipi, motivi dei cunti e considerazioni II giornata.

Tipi e motivi dei cunti in accordo con Aarne e Thompson: "The types of the folk-tale" Helsinki, 1928, e in accordo con Stith Thompson:"Motif-index of folk-literature" Helsinki 1932.Da Norman Mosley Penzer, The Pentamerone of Giambattista Basile Londra 1932 con traduzione e qualche aggiunta di Salvatore La Grassa(SLG)

Online Il cunto de li cunti in dialetto napoletano a cura di Michel Rak(su letteraturaitaliana.net

Online la prefazione all'opera di Benedetto Croce e i cunti di I e II giornata con testo in dialetto conforme alla stampa del 1634

I cunti delle giornate III, IV e V con testo in dialetto conforme alla stampa del 1634


Lo compare(II giornata, 10° cunto)

Tipi:
1360C. Il vecchio Ildebrando.

Motivi:
J1344. Sgradito ospite riferisce, fa delle rivelazioni sul pasto misterioso.


Il racconto tradotto e commentato da Benedetto Croce


Cola Iacopo Aggrancato ha un compare scroccone, che se lo succhia tutto; e, non riuscendo con artifici e stratagemmi a toglierselo di dosso, finalmente prende animo, e, con un fiume di male parole, lo sfratta dalla sua casa. Fu veramente bello questo racconto(si fa riferimento al cunto precedente, ndr), detto con grazia e ascoltato con attenzione, ed assai piacque. Ma, poiché ogni minimo intervallo che si frapponeva tra racconto e racconto teneva la schiava sulla corda e le dava i tratti (metafora che fa riferimento a un certo tipo di tortura in uso a quel tempo, vedi Wikipedia , ndr), fu sollecitata Iacova a far la parte sua. E costei mise mano alla botte delle filastrocche, per rinfrescare la brama degli ascoltatori, a questo modo: La poca discrezione, signori, fa cadere la mezzacanna di mano al mercante del giudizio, puntar male il compasso all’architetto della creanza e perdere la bussola al marinaio della ragione. Essa, mettendo radici nel terreno dell’ignoranza, non fa nascere altro frutto che di vergogna e di mortificazione, come si vede accadere ogni giorno, e particolarmente occorse a un compare dal muso duro, del quale sto per dirvi. Era un tal Cola Iacopo Aggrancato di Pomigliano, marito di Masella Cernecchia di Resina, uomo ricco come il mare, che non sapeva esso stesso quello che possedesse, tanto che aveva rinchiuso i porci e gli bastava la paglia fino a giorno (modo burlesco di significare abbondanza di beni, nota del Croce). Con tutto ciò, quantunque non avesse né figli né fastidì e misurasse i de quibus a tomoli, non gli cascava dalla tasca un callo, se anche corresse cento miglia; e, sottomettendosi a o gni sorta di privazioni, menava una vita stentata da cane per mettere da parte e accumulare. Ma, cosi avaro com’era, gli accadeva che ogni giorno, all’ora in cui si metteva a tavola per mantenere la vita, sopraggiungesse, per sua disgrazia, un canchero di compare, che non lo lasciava mai di piede, e, come se avesse l’orologio in corpo e l’ampolletta (clessidra) nei denti, si presentava sempre al momento del masticatorio, per accompagnarsi coi due coniugi. E, con una fronte dura da pestello, si appiccicava di tal maniera ai panni che non l’avresti potuto staccare a forza di piccone. E tanto contava loro i bocconi che mettevano in bocca, e tanti mottetti gettava e tante aste scagliava, finché gli era detto: «Se ti piacesse!». Allora, senza farsi troppo pregare, cacciandosi in mezzo tra il marito e la moglie, abbramato, affamato, ammolato come un rasoio, aizzato come un cane da presa, col mal della lupa in corpo, con una corsa che volava: «Donde » viene? dal mulino!» (detto proverbiale), menava le mani come suonatore di piffero, torceva gli occhi come gatto selvatico e operava coi denti come con la pietra da macinare; e, trangugiando senza masticare, e l’un boccone non aspettando l’altro, quando s’era ben piene le mascelle, caricato lo stomaco e fatta la pancia come un tamburo, quando aveva vista la patina delle scodelle e spazzato il paese, si alzava e senza dire: «Statevi bene», dato di mano a un orcio di vino, e soffiatolo, tracannatolo, vuotatolo, scolatolo e rasciugatolo tutto d’un fiato, prendeva la strada per le faccende sue, lasciando Cola Iacovo e Masella con un palmo di naso!
Essi, vedendo la poca discrezione del compare, che, come sacco scucito, ingurgitava, trangugiava, pappava, dipanava, pettinava, scuffiava, ciancolava, divorava, diluviava, piluccava, sgranocchiava, maciullava, imbudellava, grufava, sgombrava e sfrattava tutto quanto si trovava sulla tavola, non sapevano che cosa fare per staccarsi dalla pelle questa mignatta, questa pittima cordiale, questo imbrattamento di brache, questa cura d’agosto (male che viene ai cavalli e per traslato molestia), questa mosca fastidiosa, questa zecca cavallina, questa legaccia dolorosa, questo soprosso, questa pigione, questo censo perpetuo, questo polpo, questa finestra di suggezione(1), questo peso, questo mal di capo. E sospiravano l’ora in cui potessero, una volta tanto, mangiare da soli, e senza tale aiuto di costa, senza tanta grascia divoratrice(2).
Una mattina, che avevano saputo che il compare era andato per assistenza di un commissario fuori della terra, Cola Iacovo disse alla moglie: «Oh che sia lodato il sole leone, che una volta, a capo di cento anni, ci tocca di menare le mascelle, di dare il portante alle ganasce e di mettere sotto il naso senza quel rompimento! Perciò, giacché la corte mi vuol rovinare, rovinare mi voglio!(3). Da questo mondo di feccia tanto hai quanto ne strappi coi denti! Presto, accendi il fuoco, che, ora a che c’è concessa mazza franca(4) di fare una bella mangiata, vogliamo cavarci il gusto di qualche cosetta saporita e di qualche boccone ghiotto». E corse in piazza a comperare una grossa anguilla, un rotolo di fior di farina e un fiasco di mangiaguerra; e, al ritorno, mentre la moglie, tutta in faccende, preparava una bella schiacciata, egli provvide a friggere l’anguilla.
Quando ogni cosa fu in ordine, sedettero a tavola; ma non s'erano ancora accomodati sulle sedie, che ecco quello sanguisuga del compare picchiare alla porta. Affacciatasi Masella,
e visto il guastafeste dei loro gusti, si rivolse al marito: « Cola Iacovo mio, non si potè mai avere un rotolo di carne dalla beccheria degli umani piaceri senza la giunta dell’osso del dispiacere; non mai si dormì nelle lenzuola bianche della soddisfazione senza qualche cimice di travaglio; non si fece mai bucato di gioia senza che non sopravvenisse qualche pioggia di contrarietà. Eccoci interrotto questo mangiare disgraziato, ecco che ci rimane in bocca questo boccone amaro!». Subito Cola Iacovo rispose: «Chiudi queste cose che sono in tavola, falle squagliare e sparire, ficcale dove non si vedano; e poi apri la porta, ché, trovando saccheggiato il villaggio, forse avrà la discrezione di andarsene via presto, e ci lascerà
in pace a trangugiare questo po’ di veleno!».
Masella, mentre il compare suonava ad armi e scampanava a gloria, cacciò l’anguilla dentro un riposto, il fiasco sotto il letto e la schiacciata tra le materasse. E Cola Iacovo si nascose sotto la tavola, mirando per un buco del tappeto che penzolava fino a terra. Il compare, attraverso la serratura della porta, vide tutto quest’armeggio; e, quando alfine gli fu aperto, entrò nella stanza con una faccia d’occasione, tutto sbalordito e sbigottito. E, avendogli Masella domandato che cosa gli fosse accaduto, rispose: «Mentre mi hai fatto stentare con tanti spasimi e ponzamenti fuori della porta, aspettando il ritorno del corvo (un riferimento biblico, ndr) che ti movessi ad aprirmi, mi è venuta tra i piedi una serpe; oh! mamma mia, che cosa smisurata e brutta! Fa’conto che era quanto l’anguilla che hai chiusa nell’armadio. Io, che mi vidi a mal partito, tremando come giunco, avendo le viscere in subbuglio per l’orrore, la verminara per la paura, il tremolio per lo schianto, raccatto una pietra da terra, grossa quanto il fiasco che è sotto il letto, e tuffete! gliela scaglio sulla testa e ne faccio una schiacciata, come quella che è tra le materasse. E, mentre moriva e sobbalzava, vedevo che mi guardava, come fa il compare di sotto alla tavola. Non m’è restata una goccia di sangue in corpo, tanto sono sbattuto e atterrito!» .
A queste parole, Cola Iacovo, che non poteva in niun modo inghiottirle, non stette più saldo, e, cacciata la testa fuori del tappeto, come Trastullo(5) che si affaccia alla scena prese
a dire: «Se è cosi, è pasticcio! Ora si, che abbiamo pieno il fuso, ve’! Ora si, che abbiamo fatto il pane, ve’! Ora si che abbiamo vinto la lite, ve’! Se ti dobbiamo qualcosa, accusaci alla Bagliva(6); se ti abbiamo fatto dispiacere, muovici una querela alla Zecca(7); se ti senti offeso, legami a corto(8); se hai qualche capriccio, usa una cura con l’imbutino(9); se pretendi qualcosa, perseguitaci con una coda di volpe(10); o schiaffaci il naso a Napoli!(11) Che termini, che modo di procedere è il tuo? Pare che sii soldato a discrezione(12) e che ti serva della roba nostra senza complimenti! Ti doveva bastare il dito e non prenderti tutta la mano; che, ormai, ci vuoi scacciar da questa casa con le tante vessazioni che ci fai! Per chi ha poca discrezione, tutto il mondo è suo; ma chi non si misura è poi misurato, e, se tu non hai mezzacanna, noi abbiamo aspi e matterelli. In fine, sai che si dice: a buona fronte, buon prestatoio. Perciò ogni riccio al suo pagliariccio, e lasciaci ai malanni nostri. Se credi d’oggi innanzi di continuare questa musica, ci perdi le pedate, e non ne fai niente; ci perdi gli apparecchi, perché niente ti riesce più a segno. Se t’immagini di coricarti sempre su questo letto morbido, hai buon tempo, va’ che l’hai! Marzo te ne ha privato(13), e puoi masticare lo steccadenti! Se pensi che questa sia taverna aperta alla tua gola fracida, te ne avvedrai: corri e infila(14). Scordatene, levatelo dalla testa, è opera persa, è casa di vento; e per te non c’è più né esca né taglio! Avevi sbirciato i faciloni e i piccioni; avevi adocchiato i pupilli; avevi scandagliato gli asini; avevi trovato la cuccagna! Ora tornatene, ché non ti viene più fatto, e a questa casa puoi mettere nome penna (penna d'uccello che sfugge ad ogni minimo alito di vento, ndr), ché non attingi più acqua con la secchia mia; e, se sei uno spiapranzi, un divorapani, uno sparecchiatavole, uno spazza cucine, un leccapignatte, un nettascodelle, una golaccia, un condotto di chiavica, se hai la divoraggine, la lupa, il diluvio e lo sfondolamento nelle budella, che faresti sparire un asino e divoreresti una nave, che ti cacceresti in bocca l’orso del principe, ti scialacqueresti il Sangradale(15), e non ti basterebbero il Tevere e l’Arno, e ti mangeresti le brache di Mariaccio(16), va’ per altre chiese, va’ a tirare la sciabica, va’ raccogliendo cenci tra le spazzature, va’ cercando chiodi nella lava, va’ buscando cera nelle esequie(17), va’ sturando condotti di latrine per empire questo gorgozzule! e questa casa ti sembri fuoco; ché ciascuno ha i guai suoi, ciascuno sa quel che nasconde sotto i panni, ciascuno sa che cosa gli pesa sullo stomaco, e non abbiamo bisogno di coteste ditte rovinate, di cotesti clienti falliti e di coteste lance spezzate! Chi si può salvare, si salvi: e conviene che tu ti spoppi da questa mammelletta! Uccello perdigiorno, disutile, poltrone, lavora, lavora! Méttiti all’arte, trovati un padrone!».
Lo sciagurato compare, sentendosi fare questo discorso fuor dei denti, questa crepata di postema, questa cardata senza pettine, tutto freddo e gelato, come ladro còlto in flagrante,
come pellegrino che ha sperduto la strada, come marinaio che ha rotto la barca, come meretrice che ha perso i clienti, come bambino che ha sporcato il letto, con la lingua tra i denti, la testa bassa, la barba confitta al petto, gli occhi in lacrime, il naso muffito, i denti gelati, le mani vuote, il cuore assottigliato, la coda tra le gambe, mogio mogio, quatto quatto, adagio
adagio, zitto e muto, spulezzò, senza volger mai il capo indietro, venendogli a sesto quella onorata sentenza:
Cane, che a nozze va non invitato,
s’aspetti di tornarne bastonato.

Note

(1)

Testo: «sasina»: spiraglio o feritoia, da cui si guarda nella casa d'altri, e che è perciò causa di soggezione.

(2)

Letteralmente: «senza questa grascia di sughero», che è, come dire: «grascia di magro».

(3)

Allusione ai baroni, che, andati o chiamati dalle loro terre alla corte del principe, si davano a grandi spese di lusso e sfoggio, e si dissestavano; che era allora caso frequente e lamentato nel baronaggio napoletano.

(4)

Allusione al giuoco detto «mazza e piuzo», nel quale la sospensione del giocare si chiede con le parole: «mazza franca».

(5)

Trastullo: nota maschera della commedia dell'arte e già popolare a Napoli sulla fine del cinquecento. Nei Balli di Sfessania(1621) del Callot, Trastullo è rappresentato in coppia con la signora Lucia, alla quale fa una dichiarazione. Era una delle più popolari maschere carnevalesche.

(6)

La Bagliva era il Tribunale nel quale si trattavano le cause circa i danni fatti alle proprietà rurali e tutte le altre in cui il valore in questione non superava i tre ducati: la sua giurisdizione abbracciava Napoli e i casali.

(7)

La Zecca, tribunale che giudicava cause concernenti monete, pesi e misure, e le frodi nel comperare e vendere.

(8)

Come si fa con un animale, al quale si vuole impedire di avventarsi.

(9)

Cioè, col clistere.

(10)

Come fanno i ragazzi, perseguitando un gatto o altro animale per la casa, con quell’arnese che serve per togliere la polvere, ovvero un piumino fatto con code di volpe.

(11)

"Schiaffare il naso a Napoli". Napoli o Pozzuoli sostituisce un'altra parola in questa frase, la quale si riferisce al rito giudiziario onde i debitori decotti dovevano denudarsi il sedere e dar tre volte con esso su una pietra (il lastronea Firenze, la colonnina della Vicaria che sorgeva a Napoli presso quel tribunale e ora si vede si vede nel museo di San Martino). Sui costumi relativi a questa cerimonia, si veda un luogo del Guerra, Diurnali, pag. 41 e anche Pitré, Biblioteca, XV, 372-74. Par che la cosa si svolgesse così: il debitore saliva presso la colonna, si spogliava delle vesti quanto la decenza consentiva e abbracciava la colonna, per cui esponeva ai riguardanti le sue parti deretane. Correvano per Napoli i due versi scherzosi: Colonna mia aggarbata, io m'aggio fatto li diébbete e tu me l'hai pavate. La frase del testo vuol dire dunque: non avrai nulla da togliermi.

(12)

Allude alle vessazioni che facevano i soldati nel prendere gli alloggiamenti nelle case dei privati.

(13)

Anche questa frase si riferisce ai danni del mese di marzo.

(14)

Allusione al giuoco dell’anello (o della «sortija», come dicevano gli spagnuoli), che consisteva nell’infilzare un anello, correndo.

(15)

Che è né più né meno che il «Saint-Graal» del Perceval e di altri romanzi del ciclo brettone: cioè, la preziosissima coppa, nella quale Giuseppe d’Arimatea aveva raccolto il sangue di Cristo. Già il Burchielo: « Ma non mi curo, si sono avviato, Che s’io avessi in mano il Sangradale, In picciol’ora si saria fondato» (Sonetti, ediz. con la data di Londra, 1757, pag.115).

(16)

Modo di dire proverbiale.

(17)

A coloro che si prestavano ad accompagnare coi ceri le esequie, si rilasciava quel che avanzava dei ceri, finita la cerimonia.

I cunti della seconda giornata



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