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News Ospedale Humanitas di Rozzano(Milano)

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Diagnosi precoce del tumore al seno grazie all’IA
Data articolo:Thu, 06 Mar 2025 13:10:23 +0000

Medici e tecnici di radiologia dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e degli Humanitas Medical Care hanno un nuovo alleato per la diagnosi precoce del tumore del seno, patologia che in Italia colpisce circa 60mila donne ogni anno. Si tratta di un software di Intelligenza Artificiale in grado di migliorare la qualità e l’efficacia degli esami mammografici.

L’IA supporta i professionisti sanitari lungo tutto il percorso diagnostico. In particolare: verifica in tempo reale la qualità delle immagini mammografiche, aiutando i tecnici a garantire esami ottimali; valuta la densità mammaria, oggi riconosciuta come uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo del tumore al seno e una possibile causa di diagnosi mancate.

«Secondo le linee guida della Società Europea di Breast Imaging (EUSOBI) – spiega la prof.ssa Daniela Bernardi, responsabile della Radiologia Senologica e Screening dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Milano –, per le mammelle con densità estremamente elevata sono raccomandati esami aggiuntivi, come la risonanza magnetica, che consente di superare i limiti della mammografia in questa categoria di densità, aumentando l’accuratezza diagnostica. Grazie alla classificazione oggettiva della densità mammaria fornita dal software, è possibile identificare con precisione le donne che potrebbero necessitare di esami aggiuntivi e disegnare percorsi diagnostici omogenei».

La piattaforma offre inoltre funzionalità avanzate, tra cui la possibilità di affiancare i radiologi nell’individuare lesioni mammarie favorendo diagnosi sempre più precise e tempestive.

«Questo innovativo strumento rappresenta un alleato prezioso per il team multidisciplinare delle Breast Unit, composto da tecnici di radiologia, radiologi, chirurghi, oncologi, radioterapisti, psicologi e tutte le altre figure professionali, perché migliora l’identificazione precoce del tumore grazie alla qualità delle immagini, consentendo trattamenti sempre più mirati e personalizzati. Per le donne, significa maggiore sicurezza, esami più accurati e la certezza che ogni dettaglio venga analizzato garantendo un’elevata qualità», conclude la prof.ssa Bernardi.

Questa tecnologia, già adottata nell’area milanese, verrà estesa a tutti gli ospedali Humanitas e alla rete di centri Humanitas Medical Care di Lombardia, Piemonte e Sicilia in cui si effettuano mammografie.
Si tratta della prima esperienza di questo tipo in un gruppo ospedaliero, con l’obiettivo non solo di uniformare i percorsi di diagnosi e cura, ma anche di rafforzare il lavoro in rete. Grazie a questo strumento, sarà possibile garantire coerenza tra i diversi centri, favorendo una condivisione strutturata delle competenze e assicurando ovunque un’elevata qualità clinica.

Screening mammografico e prevenzione: chiave per la diagnosi precoce

La mammografia è fondamentale per individuare il tumore al seno in fase iniziale, aumentando la possibilità di trattamenti meno invasivi e migliorando significativamente la prognosi. Oggi, grazie alla diagnosi precoce, la percentuale di guarigione completa ha raggiunto l’87%.

Per accedere alla mammografia, le donne possono aderire ai programmi di screening attivi su tutto il territorio nazionale. In generale, si raccomanda di eseguire l’esame a partire dai 40 anni, età dalla quale il rischio comincia ad essere effettivo. In alcuni casi, come ad esempio se il seno risulta particolarmente denso alla mammografia, lo specialista può consigliare ulteriori accertamenti tramite ecografia mammaria o, per situazioni ad alto rischio, risonanza magnetica.

Il primo passo resta sempre la prevenzione: in aggiunta all’autopalpazione del seno, è importante definire un percorso di prevenzione personalizzato che associ, alla visita senologica, mammografia e/o ecografia mammaria in funzione dell’età, della storia familiare ma anche delle caratteristiche della mammella di ogni donna, tra le quali appunto la densità mammografica. Senza dimenticare che uno stile di vita corretto, con una dieta bilanciata, movimento fisico costante e astensione dal fumo, è la prima forma di prevenzione.

Il video-racconto:

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A cura di cmaddaleni
Udito: i disturbi più comuni e come prevenirli
Data articolo:Tue, 04 Mar 2025 13:32:25 +0000

I disturbi dell’udito, come acufeni, vertigini, ovattamento auricolare, ma anche perdita completa o parziale dell’udito, sono estremamente comuni e ne è interessato circa il 20% delle persone a livello globale (dati OMS). Possono insorgere a qualsiasi età avere un impatto negativo sulla quotidianità, per questo è importante sapere quali abitudini seguire per mantenere in salute le proprie orecchie e prevenire così l’insorgenza di disturbi anche severi.

È proprio questo l’obiettivo della Quarta giornata nazionale di sensibilizzazione sulle malattie dell’orecchio e conseguenti disturbi uditivi, che si terrà il 5 marzo 2025 con il titolo La sordità siamo noi

Ne parliamo con il dottor Domenico Villari, otorinolaringoiatra presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano. 

Ipoacusia: che cos’è

L’ipoacusia è il disturbo dell’udito più rilevante e comporta la perdita della funzionalità uditiva. Può manifestarsi in modo lieve, moderato, grave o profondo, interessare entrambe le orecchie o solo una e insorgere in maniera improvvisa o progressiva.

Le cause della ipoacusia possono ricercarsi in patologie o problematiche che interessano l’orecchio esterno o medio (si parla in questi casi di ipoacusia di tipo trasmissivo), o l’orecchio interno e il nervo acustico (ipoacusia di tipo neurosensoriale), oppure entrambi i distretti (ipoacusia di tipo misto). 

L’ipoacusia di tipo trasmissivo si associa a un difetto nella trasmissione dell’onda sonora provocato dalla presenza di ostacoli meccanici rappresentati da patologie che si sviluppano nel condotto uditivo esterno (tappo di cerume o corpi estranei), a carico della membrana timpanica (otiti medie, perforazioni) o nella cassa del timpano interessando anche la catena degli ossicini (infiammazioni croniche, fratture traumatiche, malattie degenerative dell’osso). 

L’ipoacusia di tipo neurosensoriale si associa invece ad alterazioni dell’apparato recettoriale nervoso che risiede nella coclea e nelle fibre del nervo acustico. In questo caso le cause di sordità sono rappresentate da insulti infettivi di tipo virale o micro ischemico (ipoacusie improvvise), traumi acustici acuti o cronici, malattia di Menière (in cui l’ipoacusia è fluttuante e si associa a vertigini) o tumori del nervo stato-acustico. Un caso classico e di frequente riscontro di ipoacusia neurosensoriale è la presbiacusia, ipoacusia dell’anziano dovuta alla senescenza dell’apparato recettoriale uditivo legata all’età. 

Come prendersi cura del proprio udito

Proteggere l’udito è fondamentale, sia da bambini sia successivamente, per evitare l’insorgenza di disturbi anche in là nel tempo.

Le buone pratiche per prendersi cura del proprio udito sono:

  • mantenere il volume dei propri dispositivi sotto il 60% ed evitare l’esposizione continuativa e/o frequente a fonti sonore intense o stimoli sonori improvvisi
  • usare presidi di protezione personale (tappi o cuffie) per le orecchie quando si è in ambienti troppo rumorosi
  • eseguire un test dell’udito nei neonati (otoemissioni), nei bambini in età scolare e in tutti gli adulti superati i 50 anni
  • monitorarsi in autonomia annualmente, per esempio con le app per la valutazione dell’udito, e richiedere una valutazione medica se i risultati risultano alterati
  • in generale avere un’alimentazione equilibrata povera di sale, caffè e alcolici e uno stile di vita attivo aiuta a mantenere in salute l’organismo, compreso il sistema uditivo.

Inoltre, chi avesse disturbi dell’udito già diagnosticati può utilizzare, quando consigliato dallo specialista protesi acustiche o altri dispositivi, utili a migliorare in maniera effettiva l’esperienza di ascolto. In alcune condizioni il supporto dei sottotitoli, sui dispositivi che lo prevedono, e del linguaggio dei segni può essere di grande aiuto.

Musica e videogiochi: come proteggere l’udito

Tra le abitudini che possono avere un impatto sulla salute del proprio udito ci sono l’ascolto di musica e l’utilizzo di videogiochi. Non bisogna, per questo, rinunciare ai propri passatempi, ma si possono mettere in atto delle strategie per farlo in maniera sicura. 

Per quanto riguarda l’ascolto di musica, oltre a mantenere il volume basso sui dispositivi di ascolto, bisogna anche prestare attenzione agli eventi. È consigliato dotarsi di tappi per le orecchie durante i concerti, da quelli appositi che si trovano in commercio a quelli offerti gratuitamente in molti locali. Utile anche scegliere un posto lontano dagli altoparlanti, per contenere l’esposizione al suono, e spostarsi in zone silenziose per riposare le orecchie quando se ne sente il bisogno. Si può anche monitorare il livello dei decibel con delle app per smartphone ed è importante dedicarsi successivamente a una giornata tranquilla, per permettere alle orecchie di riposare. 

Se, invece, si utilizzano spesso videogiochi è opportuno scegliere quelli con le funzioni di ascolto sicuro e usare dispositivi che hanno la possibilità di impostare un limite per ogni sessione di gioco. È consigliato inoltre dotarsi di cuffie con cancellazione del rumore e dedicarsi al videogioco in uno spazio tranquillo, in cui i rumori di sottofondo sono ridotti al minimo. 

Quando fare riferimento allo specialista?

A partire dai 40 anni è possibile che l’udito inizi fisiologicamente a peggiorare e può essere utile mantenerlo sotto controllo, in particolare se si eseguono professioni o ci si trova in condizioni ambientali che espongono al rumore in maniera continuativa. Se, a qualsiasi età, si manifestano disturbi dell’udito, è importante fare riferimento allo specialista otorinolaringoiatra, in modo da diagnosticare velocemente un eventuale patologia tramite esami che valutano la funzionalità dell’udito come il test audiometrico tonale, vocale e impedenzometrico. 

I principali sintomi che possono indicare un disturbo dell’udito sono:

  • ipoacusia
  • acufeni
  • vertigini
  • ovattamento auricolare.

Altre manifestazioni che possono rappresentare un campanello d’allarme e a cui prestare attenzione sono la necessità di aumentare il volume quando si ascolta la tv o la radio e la difficoltà a capire le persone con cui si sta parlando in contesti rumorosi, magari trovandosi a chiedere di ripetere quanto detto.

La giornata nazionale

Organizzata dalla Società Italiana di Otorinolaringoiatria e Chirurgia Cervico Facciale (SIOeChCF) e dalla Società Italiana di Audiologia e Foniatria (SIAF), la giornata di sensibilizzazione sulle malattie dell’orecchio e conseguenti disturbi uditivi vuole promuovere la conoscenza dei problemi dell’udito e le possibilità di prevenzione e trattamento, sensibilizzando in particolare sui comportamenti che possono risultare dannosi per l’udito

L’evento del 5 marzo vuole mettere al centro il cambiamento necessario a livello collettivo e sociale nella percezione delle patologie dell’udito e dell’orecchio. La giornata prevederà, in accordo con le specificità socio sanitarie delle singole Regioni, iniziative di sensibilizzazione sui canali d’informazione, eventi pubblici e visite di screening gratuite. 

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A cura di cmaddaleni
Paratormone, che cos’è e cosa fare quando è alto
Data articolo:Tue, 04 Mar 2025 13:27:53 +0000

Il paratormone (PTH) è un ormone che viene prodotto da quattro ghiandole, le paratiroidi, localizzate dietro la tiroide, nel collo. È un ormone importante perché ha il compito di mantenere costanti i livelli di calcio e di fosforo circolanti espletando la propria azione a livello di ossa, intestino e reni. 

La secrezione di paratormone è regolata dai valori di calcio, fosfato e vitamina D nel sangue. Il regolatore principale è rappresentato dalla calcemia: quando i livelli di calcio sono bassi, le ghiandole paratiroidi rilasciano più paratormone; mentre quando il calcio è alto, la produzione di paratormone diminuisce. 

Questo raffinato meccanismo ha lo scopo di mantenere costante nel nostro organismo i livelli di calcio in un ristretto range di norma. Infatti, oltre a contribuire al mantenimento della salute ossea, il calcio è importante per una serie di funzioni biologiche come la trasmissione degli impulsi nervosi, la secrezione ormonale, la contrazione muscolare, e alcune reazioni chimiche ed enzimatiche.

Ne parliamo con il professor Andrea Lania, responsabile di Endocrinologia e Diabetologia presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano e il dottor Alessandro Fanti, specializzando in Endocrinologia.

Come agisce il paratormone?

Il paratormone ha un ruolo cruciale nel mantenere i livelli di calcio e fosfato nel sangue e per fare ciò agisce su tre principali distretti:

  1. Nelle ossa agisce direttamente tramite la stimolazione di specifiche cellule, gli osteoclasti, con la conseguente liberazione di calcio nel circolo sanguigno; questo provoca un indebolimento delle ossa e un aumento del rischio di fratture. 
  2. Nei reni aumenta il riassorbimento del calcio nei reni, riducendo la perdita urinaria di calcio. Inoltre, stimola la produzione di vitamina D attiva (calcitriolo), che migliora l’assorbimento intestinale di calcio.
  3. Nell’intestino, indirettamente tramite la produzione di vitamina D, il paratormone migliora l’assorbimento intestinale di calcio.

Quando e perché viene utilizzato l’esame per valutare il paratormone?

L’esame che misura la concentrazione del paratormone viene richiesto quando precedenti esami del sangue hanno evidenziato alterazioni dei livelli di calcio o fosfato, in presenza di segni o sintomi suggestivi per un alterato metabolismo del calcio o in caso di malattie del metabolismo osseo (ad esempio osteoporosi). La sola determinazione del paratormone non è in alcun modo sufficiente per fare diagnosi di malattia. In qualunque condizione clinica si trovi il paziente, è infatti fondamentale associare questo test ad altri esami, e in particolare la determinazione dei livelli circolanti di calcio, albumina, fosforo, vitamina D, magnesio e creatinina.

Disturbi per cui può essere indicata dal medico l’esecuzione dell’esame sono inoltre: 

Paratormone alto o basso: cosa significa il risultato?

Un livello di paratormone alto o basso può indicare diverse condizioni cliniche, e capire quale sia la causa sottostante è fondamentale per una corretta diagnosi e trattamento.

Un’aumentata secrezione di paratormone potrebbe essere riferibile a una condizione di iperparatiroidismo primitivo, nella quale si rilevano elevati livelli di paratormone contestualmente a elevati livelli di calcio circolante. L’iperparatiroidismo primario è solitamente dovuto a un adenoma, a un’iperplasia paratiroidea o, ancora più raramente, a un carcinoma. L’iperparatiroidismo secondario è un’elevazione compensatoria del paratormone, in risposta a un’anormale riduzione dei valori di calcio nel sangue dovuta ad altri processi patologici come l’insufficienza renale, il malassorbimento gastrointestinale o semplicemente una carenza di vitamina D. Vi è poi una forma terziaria di iperparatiroidismo, in cui le ghiandole paratiroidi diventano iperattive in modo permanente dopo anni di iperparatiroidismo secondario, in particolare in persone con malattia renale cronica.

I segni e i sintomi di tale condizione si manifestano prevalentemente nell’iperparatiroidismo primitivo e includono affaticamento, debolezza muscolare, dolori articolari, calcolosi renale (nefrolitiasi), iperacidità gastrica, disturbi dell’umore, e osteoporosi.

Un quadro di ipoparatiroidismo indica che le ghiandole paratiroidi non stanno producendo una quantità sufficiente di ormone. Questa condizione si manifesta più frequentemente quando il paziente si sottopone a intervento chirurgico della tiroide o delle paratiroidi, mentre in casi rari potrebbe essere legata a una patologia autoimmune

Il risultato è un livello di calcio nel sangue basso, che può causare sintomi come formicolio, crampi muscolari, dolori addominali e convulsioni.

Cosa fare quando il paratormone è alterato?

Il primo passo in caso di riscontro di alterati valori di paratormone è sempre consultare un medico, che valuterà i risultati degli esami del sangue e deciderà se sono necessari ulteriori esami, approfondimenti ematochimici o strumentali.

Una volta formulata la diagnosi, si valuterà la strategia terapeutica medica o chirurgica più idonea in base alla situazione clinica del paziente. 

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A cura di Valeria Leone
Perché l’obesità è una patologia complessa
Data articolo:Tue, 04 Mar 2025 08:37:04 +0000

L’obesità è spesso stata considerata solo come fattore di rischio per l’insorgenza di altre malattie e condizioni e la sua diagnosi usa un approccio altrettanto semplicistico, anche se ancora usato a livello internazionale, quale il parametro antropometrico dato dall’indice di massa corporea (BMI). In realtà, come sostenuto dal rapporto della Lancet Diabetes & Endocrinology Commission dal titolo Definition and diagnostic criteria of clinical obesity, pubblicato sulla rivista The Lancet – Diabetes and Endocrinology, oggi è importante dare una dignità nosografica alla malattia ed è stata proposta la definizione di “obesità clinica”, che fornisce un’identità clinica a una patologia complessa cronica e recidivante che comporta segni e sintomi specifici e delle disfunzioni d’organo direttamente associate all’eccesso di adipe, e di “obesità preclinica”, una condizione che si associa a un aumento del rischio di obesità clinica e quindi di alcune patologie, come tumori, patologie metaboliche, renali e cardiovascolari.

Ne parliamo con il professor Roberto Vettor, Responsabile Scientifico del Centro per le Malattie Metaboliche e della Nutrizione presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano e membro della Commissione.

Che cos’è l’obesità clinica

L’obesità è una malattia cronica complessa e in progressivo aumento a livello globale, per la cui diagnosi non ci si può basare soltanto sul BMI, che rischia invece, a seconda dei casi, di sovra o sottostimare l’impatto dell’adiposità sulla salute generale della persona. Questa misurazione risulta infatti inadeguata a valutare correttamente gli effetti dell’eccesso di grasso corporeo sulla funzionalità degli organi e dei tessuti dell’organismo. Al BMI, allora, vanno affiancati altri criteri diagnostici e misurazioni, come la circonferenza vita-fianchi, il rapporto circonferenza vita/altezza o rilevazioni strumentali dirette quali la bioimpedenziometria (BIA) e la densitometria (DEXA), correlandoli a sesso, età ed eventuali altri fattori. Quando si parla di obesità, infatti, non si parla di un semplice aumento di peso corporeo, ma di una patologia complessa che richiede dei criteri di diagnosi oggettivi e una strategia terapeutica mirata.

L’obesità clinica è una patologia cronica e sistemica, caratterizzata da un importante eccesso di adipe, provocato da cause multifattoriali, tra cui un particolare background genetico, abitudini alimentari errate e la sedentarietà, che comporta alterazioni nella funzionalità di organi e tessuti con sintomatologia specifica e/o limitazione nello svolgimento delle normali attività quotidiane, anche quelle di sussistenza e cura personale.

Per la sua complessità l’obesità comporta una presa in carico multidisciplinare che comprenda medici internisti, cardiologi, oncologi, endocrinologi, epatologi, pneumologi, nefrologi, chirurghi generali e bariatrici, dietisti e psicologi, al fine di accompagnare il paziente in un percorso completo che gli assicuri il miglior risultato possibile.

Obesità e stigma sociale

La negazione dell’obesità come malattia e lo stigma non solo sociale, ma anche sanitario nei confronti dell’obesità comportano un ritardo nella presa in carico e un’inerzia terapeutica già ampiamente superati per altre malattie croniche non comunicabili, come per esempio il diabete o l’ipertensione. L’obesità è spesso accompagnata da uno stigma sociale, per cui le persone che ne sono interessate si trovano a dover affrontare biasimo e/o condizioni di esclusione sociale, sia in ambito familiare e lavorativo o scolastico, sia in ambito sanitario. Identificare l’obesità come una patologia cronica con dei criteri diagnostici definiti al di fuori del solo BMI, non solo promuove un miglioramento di diagnosi e terapie, ma dà un valore distintivo e dignità a questa importante patologia riducendo gli atteggiamenti e i momenti stigmatizzanti.

La riduzione del pregiudizio e dello stigma sulle persone con obesità non passano soltanto attraverso una nuova definizione della patologia da un punto di vista clinico, ma anche promuovendo attivamente un linguaggio rispettoso, per prima cosa, all’interno del contesto sanitario: da paziente obeso a paziente o persona con obesità.

I rischi legati all’obesità

Queste predisposizioni alla disfunzione d’organo e alle complicanze sono parte integrante della fisiopatologia e della storia naturale dell’obesità clinica. Tra i danni d’organo che caratterizzano l’obesità si ricordano:

L’osteoartrite, che colpisce in particolare le articolazioni grandi e portanti come fianchi e ginocchia, si sviluppa come effetto diretto dell’aumento delle dimensioni e del peso del corpo sulle articolazioni. Comporta la riduzione delle attività della vita quotidiana, a causa delle riduzione nei movimenti con aggravamento del sovrappeso e del decondizionamento dei muscoli scheletrici, che porta alla obesità cosiddetta sarcopenica.

L’ostruzione delle vie aeree superiori causata dall’aumento della massa grassa, in particolare nel collo, influisce direttamente sulla funzionalità delle vie aeree determinando lo sviluppo di disturbi respiratori nel sonno, che vanno dal russare con aumentata resistenza delle vie aeree superiori, all’apnea notturna ostruttiva e alla sindrome da ipoventilazione dell’obesità. La presenza di disturbi respiratori del sonno con l’ipossia ricorrente e l’attivazione del sistema nervoso simpatico contribuiscono allo sviluppo di ipertensione, sindrome metabolica e diabete di tipo 2. L’aumento dell’adiposità intra-addominale e centrale agisce inoltre sulla compliance diaframmatica e sulla funzionalità polmonare con mancanza di respiro, specialmente durante periodi di maggiore richiesta di ossigeno come l’attività fisica.

Il linfedema degli arti inferiori è fortemente associato all’obesità grave, in particolare nella popolazione femminile; si sviluppa a causa della compressione meccanica dei vasi linfatici e del drenaggio ridotto, con sensazioni di dolore, tensione o entrambi, con conseguente riduzione dell’ampiezza del movimento. Il lipedema è un disturbo doloroso caratterizzato da accumulo simmetrico di tessuto adiposo sottocutaneo nelle gambe, che si verifica quasi esclusivamente nelle donne. Nella sua fase avanzata, il lipedema può essere accompagnato da linfedema.

Dati epidemiologici, genetici e sperimentali sottolineano l’esistenza di un forte legame tra obesità e insufficienza cardiaca. La perdita di peso indotta da farmaci e dallo stile di vita produce miglioramenti relativamente rapidi e considerevoli nei principali sintomi dell’insufficienza cardiaca in particolare nei pazienti con insufficienza cardiaca con frazione di eiezione preservata. L’obesità probabilmente accelera l’insufficienza cardiaca attraverso effetti emodinamici, metabolici, infiammatori e meccanici, L’obesità è anche associata alla fibrillazione atriale che può beneficiare da una perdita di peso superiore del 10%. L’obesità aumenta il rischio di tromboembolia, dovuto agli effetti meccanici che influenzano il flusso sanguigno negli arti inferiori e alla secrezione di fattori pro trombotici dal tessuto adiposo viscerale.

L’iperglicemia (disglicemia o inappropriata glicemia a digiuno o prediabete) derivante dalla coesistenza di resistenza all’insulina e disfunzione delle cellule ß che originano dalla malattia dell’organo adiposo con deposito di grasso ectopico all’interno delle stesse isole pancreatiche. La persistenza di tali alterazioni può accelerare la comparsa di un diabete mellito di tipo 2.

La dislipidemia aterogena associata all’obesità o al grasso ectopico è caratterizzata da: ipertrigliceridemia (chilomicronemia) postprandiale, alte concentrazioni di trigliceridi plasmatici e particelle VLDL di grandi dimensioni; bassa concentrazione di colesterolo HDL e aumento della concentrazione di LDL piccole e dense (e quindi del numero di particelle patogene contenenti apolipoproteina B).

Sia i maschi sia le femmine possono avere disfunzioni gonadiche derivanti dai complessi adattamenti ormonali legati all’obesità. L’obesità può essere una causa di infertilità. Nelle femmine, la disfunzione ormonale del tessuto adiposo e l’iperinsulinemia e la resistenza all’insulina costituiscono i principali collegamenti allo sviluppo di iperandrogenismo funzionale o sindrome dell’ovaio policistico. Nei maschi, l’obesità è una causa di ipogonadismo ipogonadotropo che determina disturbi della spermatogenesi e disfunzione erettile.

L’accelerato flusso di substrati lipidici a livello epatico con la flogosi e fibrosi conseguenti può portare allo sviluppo di malattia epatica associata a disfunzione metabolica (MASLD) che può progredire in steatoepatite (MASH) con gradi crescenti di fibrosi aumentando il rischio di  cirrosi, insufficienza epatica e carcinoma epatocellulare.

La presenza di un danno renale caratterizzato da glomerulopatia correlata all’obesità può portare a malattia renale allo stadio terminale. La causa è complessa e sembra essere correlata a processi metabolici od ormonali (ad esempio, aumento dell’attività simpatica, attivazione del sistema renina-angiotensina e resistenza all’insulina), emodinamici e infiammatori che si sviluppano a seguito dell’aumento della massa grassa. L’incontinenza urinaria è comune nelle donne con obesità e si sviluppa a causa dell’elevata pressione intra-addominale combinata con disfunzione del pavimento pelvico.

L’ipertensione intracranica idiopatica, che in genere si presenta con mal di testa progressivi e gravi, perdita della vista dovuta a papilledema o entrambi, è una conseguenza meno comune ma grave dell’obesità.

L’obesità spesso genera disabilità che limita le attività di routine della vita quotidiana, compresi gli aspetti legati alla gestione della malattia stessa, come l’attività fisica, la preparazione dei pasti e l’accesso alle cure. Si può arrivare a limitare la mobilità, l’equilibrio e l’ampiezza dei movimenti, compromettendo le attività di cura di sé, tra cui l’igiene personale. Il dolore cronico correlato all’obesità clinica può contribuire alla compromissione funzionale.

Un fattore importante che contribuisce all’obesità è lo stress psicologico, che può portare a un’alimentazione incontrollata. Lo stress psicologico modifica non solo la quantità di cibo ingerito, ma influenza anche i modelli alimentari dalle diete raccomandate a cibi più dolci e grassi. Esiste una forte associazione tra alimentazione disordinata e mancanza di esercizio fisico, che può esacerbare i livelli di stress, causando inoltre un aumento dell’assunzione di cibo. Obesità e depressione hanno relazioni bidirezionali con una prevalenza crescente e condividono una serie di presunti percorsi patogenetici. Le condizioni correlate all’obesità (tra cui disturbi del sonno, comportamenti e disturbi alimentari, disabilità, stigma del peso, bassa autostima e compromissione psicosociale) agiscono compromettendo la qualità della vita con entrambe le condizioni, indipendentemente da altri fattori causali. Sfortunatamente, molti farmaci utilizzati per trattare i disturbi di salute mentale promuovono l’aumento di peso, esacerbando l’obesità.

L’integrità della pelle è compromessa dall’obesità. La maggior parte dei problemi si riscontra nelle aree di contatto pelle a pelle, tra cui sotto il seno e nelle ascelle, inguine, cosce e parte inferiore dell’addome. Lo sfregamento e l’eccessiva umidità danneggiano la pelle, causando infiammazione ed eruzione cutanea (ad esempio, intertrigine), che predispongono la pelle a infezioni fungine e batteriche. L’integrità della pelle è inoltre compromessa da insufficienza venosa degli arti inferiori, linfedema e lipedema.

Tumori: obesità come fattore di rischio per lo sviluppo di neoplasie 

L’obesità, come abbiamo detto, si associa all’aumento del rischio di insorgenza di varie patologie, come ipertensione, patologie cardiovascolari, respiratorie e psichiche e alcuni tumori. L’obesità è infatti il secondo fattore di rischio, tra quelli classificati come “evitabili”, per determinati tumori (almeno 13), come quelli dell’apparato digerente (tumore di esofago, stomaco, pancreas, fegato, colecisti e colon-retto), quelli che interessano la popolazione femminile (tumore di seno, ovaio e utero) e quelli di tiroide, rene e, nella popolazione maschile, prostata. Tra gli altri tumori che possono avere rischio aumentato in presenza di obesità ci sono anche il meningioma, il mieloma multiplo e la leucemia promielocitica acuta, ma il legame è meno importante rispetto agli altri tumori menzionati.

Questa associazione tra obesità e tumori si può correlare all’aumento di stato infiammatorio (in particolare quando si parla di tumori dell’apparato digerente) e di sovrapproduzione di ormoni sessuali e della crescita che l’eccesso di grasso corporeo provoca. In questi casi, infatti, le cellule tendono ad aumentare i cicli riproduttivi, rischiando di arrivare a una moltiplicazione incontrollata e alla produzione di cellule tumorali. Inoltre, anche l’aumento di rischio di diabete associato alla minor capacità di assorbimento degli zuccheri causata dall’obesità, può rappresentare un ulteriore fattore di rischio per l’insorgenza di tumori, in particolare quelli di rene e colon. È importante anche segnalare come i tumori da cui sono interessate le persone con obesità tendono a essere di maggior aggressività, così come in questi pazienti è anche frequente l’insorgenza di recidive di malattia. Anche le complicanze in fase di trattamento sono maggiori in presenza di obesità, in particolar modo perché l’eccesso di adipe può alterare la distribuzione dei farmaci nell’organismo, rendendone più complicato il dosaggio. La correlazione tra obesità e tumori in età adulta riguarda anche l’obesità infantile: chi presenta da bambino un eccesso importante di adiposità, infatti, può mantenerlo anche successivamente, con un conseguente rischio aumentato per le patologie di cui abbiamo parlato. Non sono invece evidenziate correlazioni tra tumori pediatrici e obesità infantile.

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A cura di cmaddaleni
Innovazione e multidisciplinarietà nella gestione delle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali: un evento per pazienti e caregivers
Data articolo:Thu, 27 Feb 2025 13:51:09 +0000

L’incontro del 28 febbraio, alle ore 15:00, organizzato dall’IBD Center di Humanitas e AMICI Italia, rappresenta un’importante occasione di confronto e aggiornamento sulle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali (MICI), patologie – come la Colite ulcerosa e la Malattia di Crohn – che impattano profondamente sulla qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie. L’incontro si terrà presso la Sala E del Centro Congressi di Humanitas (via Manzoni 113, Rozzano), con la partecipazione di esperti del settore, ricercatori e pazienti.

Un approccio innovativo e multidisciplinare

L’evento si propone di illustrare il modello innovativo dell’IBD Center di Humanitas, che coniuga clinica e ricerca per offrire un’assistenza all’avanguardia, personalizzata e di alta qualità. Il team multidisciplinare del Centro, composto da medici, chirurghi, infermieri, coordinatori di studio, ricercatori e personale amministrativo, lavora sinergicamente per costruire una rete di supporto per i pazienti.

Un programma ricco di contributi e tavole rotonde

Dopo la registrazione e il saluto iniziale, l’evento entrerà nel vivo con una presentazione dell’IBD Center di Humanitas, a cura dei responsabili scientifici nonché co-direttori del Centro, Prof. Alessandro Armuzzi e Prof. Antonino Spinelli, con il contributo di Salvo Leone, Direttore Generale di AMICI Italia. Seguiranno due tavole rotonde interattive:

  • “IBD tra falsi miti e preconcetti: la gestione delle MICI nel 2025”, che affronterà temi cruciali come le terapie attuali e future, la chirurgia moderna e il ruolo chiave dell’infermiere dedicato.
  • “Come coniugare i desideri del paziente e gli obiettivi della terapia”, con focus su aderenza terapeutica, monitoraggio strumentale, impatto della dieta e approccio multidisciplinare.

Il congresso darà spazio anche alle testimonianze dirette dei pazienti, fondamentali per comprendere a fondo l’impatto delle MICI e migliorare l’assistenza sanitaria.

Un’occasione di dialogo e condivisione. Come dichiarato dal Prof. Alessandro Armuzzi, Co-Direttore dell’IBD Center e Direttore U.O. Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali, IRCCS Istituto Clinico Humanitas: La gestione multidisciplinare delle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali è ormai un presupposto che non deve mancare sia all’inizio che nei momenti decisionali cruciali del percorso di cura. La collaborazione e interazione delle varie figure professionali richieste per una gestione eccellente della MICI a partire dal momento della diagnosi a quella del trattamento, della remissione e/o delle riacutizzazioni, sono alla base della più adeguata combinazione e realizzazione degli interventi assistenziali e di una presa in carico completa della persona assistita”.

Il Prof. Antonino Spinelli, Co-Direttore dell’IBD Center e Direttore U.O. Chirurgia del Colon e del Retto, IRCCS Istituto Clinico Humanitas specifica: “La presa in carico globale rappresenta sicuramente il gold standard dei modelli organizzativi per garantire concretamente le condizioni di successo anche nella gestione chirurgica, tra cui si distinguono diverse fasi come quella peri-operatoria, la riduzione del rischio chirurgico e il pronto recupero dell’autonomia del paziente”.

«La collaborazione con Humanitas dichiara Salvo Leone, Direttore Generale di AMICI Italia rappresenta un fondamentale passo avanti nella gestione integrata delle MICI. In AMICI Italia crediamo fermamente che l’unione tra clinica, ricerca e supporto al paziente sia la chiave per migliorare sia i trattamenti che la qualità della vita di chi convive con queste patologie. L’evento del 28 febbraio non solo offre un’opportunità preziosa di aggiornamento e confronto con esperti di altissimo livello, ma consolida anche il nostro impegno nel promuovere un modello assistenziale innovativo e multidisciplinare. Siamo convinti che, ascoltando direttamente le esigenze dei pazienti e lavorando in sinergia con tutte le figure coinvolte, si possano creare le condizioni ideali per una presa in carico completa e personalizzata del paziente».

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A cura di cmaddaleni
Dito a scatto: i sintomi e i rimedi
Data articolo:Thu, 27 Feb 2025 10:14:54 +0000

Il dito a scatto, o tenosinovite stenosante dei flessori, è una patologia che interessa i tendini flessori della mano. Questi tendini, che permettono di piegare le dita, si infiammano diventano più spessi e non riescono a passare al di sotto dei piccoli ponticelli (troclea basale) che li tengono attaccati alle ossa, creando difficoltà nei movimenti, provocando dolore e il caratteristico scatto. Questa situazione crea un circolo vizioso per cui più i tendini fanno fatica a scorrere e più si infiammano, peggiorando i sintomi.

Ne parliamo con il dottor Giorgio Pivato, responsabile di Chirurgia della Mano e Microchirurgia Ricostruttiva presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

Dito a scatto: quali sono i sintomi?

Il sintomo principale è il dolore alla base del dito, se la situazione peggiora si presenta un fastidioso scatto che si avverte quando si flette o si estende il dito interessato. Spesso il dolore è più intenso al mattino, dopo il riposo notturno, quando i tendini sono diventati più grossi a causa della stasi dei liquidi dovuta all’immobilità notturna.

Con il dito a scatto, attività quotidiane come tagliare le verdure o alzare una tapparella, possono causare un dolore intenso. Anche il tentativo di stendere un dito che si è bloccato in posizione flessa risulterà estremamente doloroso. Nelle fasi avanzate, il dito potrebbe diventare immobile e non essere più in grado di piegarsi completamente, rimanendo leggermente piegato.

Altri sintomi possono includere:

  • Dolore alla base del dito
  • Difficoltà a flettere completamente il dito
  • Rigidità mattutina
  • Blocco del dito in flessione.

La diagnosi del dito a scatto

È importante consultare un medico se si avvertono i sintomi del dito a scatto, soprattutto se il dolore è intenso o se il dito si blocca frequentemente in flessione. Un trattamento precoce può aiutare a prevenire il peggioramento della patologia e la necessità di un intervento chirurgico.

La diagnosi del dito a scatto avviene solitamente con una visita medica. Il medico valuterà i sintomi del paziente e osserverà i movimenti del dito. In alcuni casi, può essere utile effettuare un’ecografia o una radiografia per escludere altre patologie.

Quali sono i rimedi in caso di dito a scatto?

La cura del dito a scatto dipende dalla gravità del disturbo. Nei casi lievi, possono essere sufficienti trattamenti conservativi, come:

Tutore. Se la tenosinovite stenosante è appena insorta e non ha ancora causato una disabilità completa, di solito si preferisce un trattamento conservativo anziché chirurgico. La soluzione più comune consiste nell’utilizzo di due tipi di tutori: uno da indossare durante la notte e uno durante il giorno, entrambi personalizzati in base alle caratteristiche della mano del paziente. Il tutore notturno aiuta a mantenere le dita interessate dal processo infiammatorio in una posizione di riposo durante il sonno, riducendo così il rischio di aggravamento dei sintomi al risveglio. Per le ore diurne, quando il paziente ha bisogno di muovere la mano normalmente, si utilizza un tutore meno invasivo che viene posizionato alla base del dito, consentendo di eseguire tutti i movimenti necessari mentre impedisce l’iper-flessione del dito.

Infiltrazioni di cortisone. Se il tutore non basta, l’iniezione di cortisone nella guaina tendinea può ridurre l’infiammazione e il dolore e in certi casi risolvere definitivamente il problema, proprio perché si interrompe quel circolo vizioso di cui abbiamo parlato.

Nei casi più gravi, o quando i trattamenti conservativi non hanno avuto successo, è necessario ricorrere all’intervento chirurgico. L’intervento viene eseguito in regime ambulatoriale, in anestesia locale e dura pochi minuti. Il chirurgo apre la guaina tendinea per liberare il tendine e consentirgli di scorrere liberamente. Dal giorno seguente il Paziente potrà muovere la mano normalmente e tornare ad eseguire tutte le sue attività quotidiane senza limitazioni.

Come prevenire il dito a scatto?

Non esiste un metodo sicuro per prevenire il dito a scatto, ma alcuni accorgimenti possono ridurre il rischio di svilupparlo, come:

  • Evitare movimenti ripetitivi delle mani
  •  Fare regolarmente pause durante le attività manuali
  • Mantenere le mani calde
  •  Praticare esercizi di stretching per le mani
  • Curare eventuali malattie sistemiche come il diabete o l’artrite reumatoide.

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A cura di Maddalena Costa
Cuore: il freddo è un fattore di rischio?
Data articolo:Thu, 27 Feb 2025 10:13:05 +0000

Il clima in cui viviamo può influenzare significativamente la nostra salute, soprattutto durante l’inverno, quando le temperature rigide mettono a dura prova l’apparato cardiovascolare. 

Ma in che modo il freddo incide sul cuore? Ne parliamo con il dottor Davide Romagnolo, cardiologo presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas Rozzano e gli ambulatori Humanitas Medical Care.

Freddo e cuore: cosa succede all’organismo? 

Per difendersi dal freddo e prevenire l’abbassamento della temperatura corporea (ipotermia), il nostro corpo reagisce con la vasocostrizione, ossia la riduzione del calibro delle arterie periferiche. Questo meccanismo limita la dispersione di calore, concentrando il sangue verso gli organi vitali, come cuore e cervello. Tuttavia, questo processo comporta un aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, incrementando il carico di lavoro del cuore. In persone con placche aterosclerotiche coronariche, magari stabili e asintomatiche, questo stress aggiuntivo può slatentizzare un’ischemia latente, aumentando il rischio di eventi cardiaci come l’infarto del miocardio.

Freddo, infezioni e inquinamento 

L’inverno non porta solo freddo, ma anche un aumento delle infezioni respiratorie, come l’influenza e la polmonite, a causa della maggiore permanenza in luoghi chiusi e affollati. Queste patologie innescano una risposta infiammatoria che può destabilizzare le placche aterosclerotiche, favorendone la rottura e, di conseguenza, la formazione di trombi nelle arterie coronarie. 

A complicare ulteriormente il quadro contribuisce l’aumento degli inquinanti atmosferici, dovuto al riscaldamento domestico, ai trasporti e alle attività industriali durante i mesi invernali. L’esposizione prolungata a queste particelle nocive è stata associata a un incremento del rischio di eventi cardiovascolari acuti, come infarti e ictus

Come proteggere il cuore dal freddo? 

Proteggere il cuore durante l’inverno richiede alcune semplici ma fondamentali precauzioni:

  • Vestirsi adeguatamente: indossare abiti a strati permette di adattarsi facilmente ai cambi di temperatura tra ambienti interni ed esterni, prevenendo gli sbalzi termici e riducendo lo stress sul sistema cardiovascolare.
  • Evitare sforzi intensi al freddo: le basse temperature, unite all’attività fisica, possono aumentare oltre soglia il lavoro cardiaco e incrementare il rischio di ischemia, soprattutto nei pazienti con patologie cardiovascolari note, negli anziani e nei soggetti fragili.
  • Prevenire le infezioni respiratorie: la vaccinazione antinfluenzale e antipneumococcica è fortemente raccomandata per le categorie a rischio. È inoltre utile arieggiare regolarmente gli ambienti confinati, preferibilmente al mattino, quando il livello di inquinanti è più basso ed evitare di frequentare luoghi chiusi ed affollati.
  • Limitare l’esposizione all’inquinamento: chi è a rischio cardiovascolare dovrebbe evitare di uscire o praticare attività fisica all’esterno nelle ore di punta per il traffico e nei giorni in cui la qualità dell’aria è particolarmente scarsa.

 Una visita cardiologica urgente è consigliata in presenza di sintomi come:

  • Dolore toracico, soprattutto se associato a sforzo o esposizione al freddo
  • Palpitazioni o aritmie
  • Svenimenti improvvisi o ingiustificati
  • Dispnea (mancanza di fiato) o difficoltà a compiere sforzi abituali.

A scopo preventivo, invece, è utile sottoporsi a un controllo cardiologico se si hanno familiari di primo grado con patologie cardiache o morti improvvise in giovane età. Inoltre, è consigliata una valutazione cardiologica di screening per tutti gli uomini sopra i 40 anni e per le donne dopo la menopausa.

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A cura di cmaddaleni
Che cos’è una reazione allergica e quali sono i sintomi
Data articolo:Thu, 27 Feb 2025 10:11:20 +0000

Le reazioni allergiche sono provocate da una reazione abnorme del sistema immunitario che riconosce come “pericolose” sostanze che normalmente non risulterebbero dannose per l’organismo definite come allergeni. La reazione allergica può svilupparsi dopo aver inalato, toccato o assunto un cibo, un farmaco e più in generale una sostanza, ma anche attraverso le punture degli insetti. 

Ne parliamo con il dottor Giovanni Paoletti, allergologo presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano. 

Perché si sviluppano le reazioni allergiche? 

Le cause sottostanti le reazioni allergiche sono ancora oggetto di studio, ma queste si verificano per cause multifattoriali sia di tipo genetico sia dopo esposizione ambientale. Inoltre, ci sono alcune sostanze che più comunemente rispetto ad altre si associano allo sviluppo di allergie, come ad esempio tra gli inalanti i pollini, epiteli di animali domestici, gli acari della polvere e muffe; tra gli alimenti l’uovo, il latte, la frutta secca e i crostacei, ma non meno rilevanti per severità delle possibili reazioni il veleno di imenotteri (come le api) e alcuni farmaci (in particolare l’acido acetilsalicilico e le penicilline). Tuttavia si possono sviluppare allergie anche a sostanze meno comuni. 

Reazione allergica: da quali sintomi si riconosce? 

I sintomi di una reazione allergica possono essere più o meno gravi e molto eterogenei nella loro manifestazione. 

In particolare, i sintomi di una reazione allergica normalmente coinvolgono la cute, con la comparsa sulla pelle di:

Oppure possono essere sintomi respiratori, con lo sviluppo di oculorinite e difficoltà respiratoria.

Nei casi di una reazione allergia più importante, soprattutto quando è determinata da alimenti, farmaci o punture d’insetto, i sintomi possono essere:

La reazione allergica più grave è lo shock anafilattico, una reazione a esordio improvviso da riconoscere e trattare immediatamente poiché rappresenta un serio rischio per la vita. L’unico farmaco che fa regredire lo shock anafilattico è l’adrenalina, un farmaco salvavita che chi ha allergie gravi diagnosticate deve avere sempre con sé. 

Che cos’è lo shock anafilattico 

Lo shock anafilattico (il grado più severo dell’anafilassi) può essere provocato da alimenti, anche assunti in minime quantità, farmaci, lattice o punture di insetti, a cui si è già sensibilizzati. Non può quindi verificarsi al primo contatto con l’allergene, ma si presenta dal secondo contatto: in generale è consigliato per chi avesse sviluppato anche in precedenza una reazione allergica a qualche sostanza o in seguito a punture di insetti deve quindi consultare lo specialista allergologo per valutare l’entità dell’allergia, farsi eventualmente prescrivere i farmaci opportuni e fare chiarezza sui sintomi dell’anafilassi in presenza dei quali utilizzare immediatamente il farmaco. I sintomi che, se insorti dopo aver assunto un alimento, un farmaco o essere stati punti da un insetto, indicano un possibile rischio di future reazioni allergiche importanti sono la difficoltà respiratoria, l’orticaria e l’insorgenza di una sensazione di malessere causata dall’ipotensione. 

Lo shock anafilattico comporta il rilascio di elevate concentrazioni di istamina e altre sostanze nell’organismo, con l’improvvisa dilatazione dei vasi sanguigni e, di conseguenza, un eventuale repentino abbassamento della pressione arteriosa e la perdita di conoscenza. Si manifesta da pochi minuti dopo il contatto con la sostanza allergenica, fino alle 24 ore ma normalmente entro i primi 30 minuti.


I sintomi associati allo shock anafilattico di fronte ai quali è opportuno trattare il paziente e chiamare tempestivamente il 112 per accedere in Pronto soccorso sono:

  • alterazione del tono della voce
  • difficoltà respiratoria
  • dolore all’addome
  • edema (gonfiore di palpebre, labbra e glottide)
  • nausea, vomito e/o dissenteria
  • orticaria
  • sensazione di costrizione alla gola
  • sensazione di malessere
  • sensazione di svenimento.

L’anafilassi può inoltre presentarsi più facilmente in presenza di cofattori come l’assunzione di alcolici, terapie con farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), infezioni, temperature più alte della norma, umidità, esercizio fisico intenso o mestruazioni.

In caso di shock anafilattico, l’unico farmaco che fa regredire i sintomi è come abbiamo detto l’adrenalina. L’adrenalina può essere prescritta anche in formulazione autoiniettabile e ha la forma di una “penna”, con in un’estremità un cappuccio di sicurezza e, nell’altra estremità, un ago che, premuto contro la coscia, inietta immediatamente una singola dose controllata di farmaco. Anche dopo l’assunzione di adrenalina è indispensabile accedere al Pronto Soccorso per essere tenuti sotto stretto controllo fino alla completa remissione dei sintomi. In assenza di adrenalina bisogna chiamare immediatamente il 112 e, se si hanno a disposizione, mentre si aspetta l’arrivo dei soccorsi, si possono somministrare antistaminici, cortisone o broncodilatatori che però non sono farmaci salvavita. Se la persona va in arresto cardiocircolatorio prima dell’arrivo dell’ambulanza bisogna eseguire immediatamente la rianimazione cardiopolmonare, facendosi guidare dagli operatori del 112. 

Come si diagnostica una reazione allergica? 

Le reazioni allergiche sono diagnosticate dallo specialista allergologo tramite una serie di esami. Il test più comune per determinare le allergie è il prick test. Il prick test viene prescritto in particolare in presenza di sintomi continuativi o stagionali che fanno sospettare la presenza di asma o oculorinite oppure se, assumendo alcuni alimenti, la persona sviluppa gonfiore a cavo orale angioedema, orticaria e prurito, disturbi gastrointestinali, asma e oculorinite.

Il prick test viene eseguito sulla cute dell’avambraccio, che viene messa a contatto con uno o più allergeni. La pelle su cui è stata posizionata una goccia di estratto allergenico viene punta con una lancetta monouso, si aspetta un tempo di 15-20 minuti e, in base alla reazione cutanea e alla storia clinica del paziente, viene diagnosticata l’eventuale allergia.

Altri test cutanei comuni sono il patch test e il test intradermico. Quando si sospetta un’allergia alimentare può venire prescritto anche il test per eliminazione, che consiste nel rimuovere uno o più alimenti dalla dieta per un tempo determinato e dunque reintrodurli per valutare l’insorgenza di eventuali reazioni. Altri test per determinare le allergie avvengono tramite esame del sangue per individuare la presenza di anticorpi specifici, come la ricerca delle IgE specifiche, consigliato ad esempio quando si sta seguendo una terapia con antistaminici, caso in cui per esempio il prick test non può essere considerato attendibile. 

Allergie: è possibile curarle? 

Per evitare l’insorgenza di una reazione allergica può essere raccomandato, una volta determinato l’allergene, evitare l’esposizione all’allergene stesso

Per alcune allergie, è inoltre disponibile quella che viene impropriamente chiamata “vaccinazione per le allergie”, ovvero l’immunoterapia allergene specifica, una terapia che desensibilizza la persona dallo specifico allergene che causa le reazioni patologiche. È una terapia che va seguita per almeno tre anni e che prevede la somministrazione controllata dell’allergene a cui si è allergici. Una via di somministrare dell’immunoterapia allergene specifica è quella sublinguale, una modalità sicura, che può essere assunta in autonomia al proprio domicilio, mentre in alcuni casi, per esempio nel caso della desensibilizzazione verso il veleno degli imenotteri, la somministrazione è sottocutanea e va quindi eseguita presso un centro medico.

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A cura di cmaddaleni
Ginocchio: gli infortuni più comuni
Data articolo:Thu, 27 Feb 2025 10:04:12 +0000

Gli infortuni al ginocchio possono interessare non solo gli sportivi professionisti o amatoriali, ma possono verificarsi anche durante le normali attività quotidiane.

Gli infortuni alle ginocchia possono manifestarsi in varie forme fra cui fratture dei capi articolari, distorsioni e lesioni dei tessuti molli come i legamenti crociati (anteriore e posteriore), i legamenti collaterali, i menischi e i tendini, e possono essere causati sia da un trauma che dall’uso eccessivo dell’articolazione. 

Tra i più comuni si trovano: 

  • lesione del menisco
  • borsite al ginocchio
  • lesione del legamento crociato anteriore
  • frattura dei capi articolari del ginocchio
  • tendinite rotulea
  • danni alla cartilagine.

Quali sono le cause e cosa fare in caso di dolore al ginocchio? Ne parliamo con il dottor Enrico Arnaldi, Responsabile di Ortopedia Artroscopica e Ricostruttiva del Ginocchio presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

Lesione del menisco

Il menisco è un cuscinetto/spaziatore fibrocartilagineo presente tra le due principali ossa dell’arto inferiore, la tibia e il femore.

Una lesione del menisco si verifica quando una persona esegue un movimento di rotazione mentre il piede è saldamente fisso al terreno e il ginocchio è flesso.

La rottura del menisco può verificarsi in seguito a un trauma da impatto, per esempio durante la pratica sportiva, o per movimenti di rotazione improvvisi del ginocchio, oppure ancora in seguito a un processo degenerativo, per usura progressiva dell’articolazione (artrosi) che ha indebolito la struttura meniscale stessa. 

Borsite al ginocchio

La borsite al ginocchio è un’infiammazione della borsa, sottile sacca piena di liquido sinoviale situata tra i tessuti, le ossa e l’articolazione del ginocchio. Quando queste sacche si irritano, si riempiono di liquido con conseguente rigonfiamento. Si tratta di un meccanismo di difesa naturale del corpo contro i traumi, che fornisce ulteriore ammortizzazione e supporto per l’osso sottostante.

La borsite al ginocchio può verificarsi a causa di movimenti ripetitivi che causano microtraumi al ginocchio, come rimanere in ginocchio per lunghi periodi di tempo, o per traumi diretti nella zona anteriore, come una caduta in avanti. 

Lesione del crociato

La lesione del legamento crociato anteriore (LCA) e/o posteriore (LCP) è caratterizzata da una lacerazione (in seguito a una distorsione del ginocchio) del legamento o dei legamenti che uniscono il femore alla tibia. Questo tipo di infortunio è frequentemente riscontrato negli sport che implicano improvvisi cambi di direzione, come basket, hockey e calcio, ma può verificarsi anche a seguito di infortuni da sci oppure traumi conseguenti una caduta da una bicicletta o motocicletta.

Le lesioni dei legamenti crociati possono spesso causare danni aggiuntivi ad altre strutture del ginocchio, come la cartilagine, i menischi e altri legamenti. 

Fratture del ginocchio

Le fratture del ginocchio possono variare in gravità e sono classificate in diversi modi: composte, quando le ossa rotte rimangono in contatto tra loro; scomposte, quando le ossa non sono più allineate; comminute, quando l’osso si rompe in molti pezzi; aperte o chiuse, a seconda che i capi di frattura siano fuoriusciti dalla superficie della cute oppure no. 

Queste fratture sono generalmente causate da traumi diretti al ginocchio, spesso derivanti da attività ad alto impatto come collisioni durante sport di contatto o incidenti stradali. Tuttavia, anche l’indebolimento delle ossa o la diminuzione della densità ossea possono aumentare il rischio di fratture, che in alcuni casi possono verificarsi anche a seguito di semplici torsioni. 

Tendinite del tendine rotuleo

La tendinite che interessa il tendine rotuleo, comunemente nota come ginocchio del saltatore, è una lesione da uso eccessivo caratterizzata da infiammazione del tendine rotuleo. Questo tendine deve sopportare tensioni importanti scaricando la forza del quadricipite, il muscolo più potente del corpo. Si verifica quando si utilizza eccessivamente l’articolazione, soprattutto in sport che implicano salti come basket o pallavolo, e sovente esistono concause costituzionali che favoriscono l’insorgere di questa infiammazione. 

Danni cartilaginei

I danni cartilaginei o condrali si verificano quando la cartilagine, il tessuto che ricopre le superfici ossee articolari, subisce danni per traumi diretti acuti o per sovraccarichi ripetuti. La cartilagine ha il compito di evitare l’attrito tra le superfici ossee. Con il tempo, il danno cartilagineo può portare a una degenerazione articolare e all’insorgenza di artrosi, soprattutto con l’aumentare della superficie lesionata.

Dolore al ginocchio: cosa fare?

Per prima cosa è importante ridurre l’attività, poiché il dolore è un segnale di allarme.

È consigliabile iniziare un percorso di “disinfiammazione” utilizzando ghiaccio e terapia antinfiammatoria.

Se il dolore persiste, è fondamentale consultare il proprio medico di base ed eventualmente uno specialista ortopedico.

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A cura di cmaddaleni
Daltonismo: i sintomi e il test per la diagnosi
Data articolo:Thu, 27 Feb 2025 09:59:10 +0000

Daltonismo è un termine che indica una serie di condizioni visive caratterizzate da alterazioni nella percezione del colore. Il nome deriva da John Dalton, un chimico e fisico inglese che, essendo colpito da questa condizione, fu il primo a descriverla nel 1794. Il daltonismo può colpire un solo occhio (daltonismo monolaterale) o entrambi gli occhi (daltonismo bilaterale). 

Ma come insorge il daltonismo e come lo si può riconoscere? Ne parliamo con la dottoressa Costanza Tredici, oculista presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

Come vede un daltonico?

Il daltonismo può manifestarsi in forme totali o parziali. Nel primo caso, si parla di acromatopsia, una condizione rara di daltonismo, in cui la persona non percepisce alcun colore ed è estremamente sensibile alla luce. 

La cecità parziale ai colori è definita discromatopsia e può presentarsi in diverse forme:

  • Protanopia: in questo caso, la persona è insensibile al colore rosso e alle sue sfumature. Quando la sensibilità al rosso è ridotta si parla di protanomalia.
  • Deuteranopia: si riferisce all’insensibilità al colore verde. Una forma più lieve di questa condizione è chiamata deuteranomalia o teranomalia.
  • Tritanopia: indica l’insensibilità ai colori giallo, blu e violetto. Una ridotta sensibilità a questi colori è nota come tritanomalia.

Le cause del daltonismo

Per distinguere i colori, l’occhio umano si affida ai fotorecettori, cellule sensoriali presenti nella retina. Nelle persone con daltonismo questi fotorecettori sono alterati con conseguente distorsione nella percezione dei colori.

La causa più frequente di daltonismo è un’alterazione ereditaria dei fotorecettori. In particolare la protanopia (insensibilità al rosso) e la deuteranopia (insensibilità al verde) sono dovute ad alcuni geni presenti sul cromosoma X. Poiché le femmine hanno due di questi cromosomi, è necessario che gli alleli per il daltonismo si trovino su entrambi, affinché esse ne soffrano. Nel sesso maschile invece è sufficiente che questi alleli siano presenti nell’unico cromosoma X del corredo genico. È per questa ragione che il daltonismo è più frequente nei maschi.

I test per il daltonismo

Per diagnosticare il daltonismo si effettuano alcuni esami per il riconoscimento dei colori; in genere questi test vengono effettuati dagli ortottisti.

Il test più comune è quello che utilizza le tavole di Ishihara. Un insieme di punti di diverse dimensioni compone un numero su uno sfondo anch’esso puntinato. Le persone con daltonismo non riescono a visualizzare correttamente il numero, confondendolo con lo sfondo, contrariamente a quanto accade in chi ha una normale percezione cromatica.

Il test di Farnsworth invece viene utilizzato in un secondo livello per meglio comprendere la portata e le caratteristiche dell’alterazione. Il test richiede di ordinare una serie di colori in modo corretto, a seconda del tono, a partire da un colore di riferimento.

Il daltonismo si può curare?

Il daltonismo è attualmente una condizione non curabile, ma esistono speciali lenti progettate per i daltonici che possono aiutare a mitigare l’insensibilità a determinati spettri di colori. 

Inoltre, la ricerca sta attualmente lavorando per avvalersi della terapia genica, che potrebbe offrire speranza per il futuro.

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A cura di cmaddaleni
Colangiocarcinoma: presentato all’EASL Liver Cancer Summit il quadro della patologia con il contributo di Humanitas
Data articolo:Thu, 20 Feb 2025 13:43:32 +0000

Il colangiocarcinoma è un tumore raro che rappresenta meno dell’1% di tutte le neoplasie maligne e il 3% di quelle del tratto gastrointestinale. Spesso è diagnosticato in stadio avanzato perché in fase iniziale dà pochi segni di sé. 

Il 20 febbraio se ne celebra la giornata mondiale e dal 20 al 22 febbraio a Parigi si svolge “EASL Liver Cancer Summit 2025”, il principale evento per la ricerca e il trattamento del cancro al fegato; quest’anno l’apertura dei lavori in sessione plenaria è dedicata al colangiocarcinoma. 

Nel corso dell’evento scientifico la prestigiosa rivista Lancet Regional Health Europe ha presentato per la prima volta una serie di lavori innovativi, un commento e un’infografica che rappresentano una novità assoluta. 

Il lavoro ha analizzato la situazione del cancro delle vie biliari in Europa ed è frutto di un’importante squadra di ricercatori europei che ha coinvolto in prima persona tre studiose: le professoresse Lorenza Rimassa (Humanitas University), Rocio IR Macias (University of Salamanca, Spagna, Chair COST Action Precision-BTC-Network) e Chiara Braconi (University of Glasgow, Scozia, UK, Chair ENSCCA, European Network for the Study of Cholangiocarcinoma), ed è stato condotto nell’ambito del progetto COST “Precision medicine in biliary tract cancer (Precision-BTC-Network)“, guidato dall’Università di Salamanca.

Lo studio, al quale hanno collaborato più di 40 ricercatori europei, rivela che l’incidenza e la mortalità di questi tumori sono aumentate in modo preoccupante negli ultimi due decenni, in particolare nel caso del colangiocarcinoma intraepatico e del cancro della colecisti. La malattia colpisce sempre più persone sotto i 60 anni, rappresentando un significativo onere sociale ed economico. Tuttavia, la conoscenza di questi tumori rimane scarsa sia tra i professionisti e le autorità sanitarie, sia nella società in generale.

Gli studi analizzano inoltre l’accesso agli strumenti diagnostici e alle cure multidisciplinari nei diversi paesi europei, evidenziando marcate disuguaglianze, specialmente in quelli con minore capacità economica. Inoltre, identificano aree prioritarie di miglioramento e sottolineano le differenze nell’accesso ai trattamenti innovativi e ai test molecolari, fattori che influenzano direttamente le opzioni terapeutiche dei pazienti.

Colangiocarcinoma: l’obiettivo del lavoro

“Condurre questi studi è stato un lavoro avvincente e impegnativo – dichiara Lorenza Rimassa, Capo Sezione Autonoma Oncologia Epatobiliopancreatica dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e Professore Associato di Oncologia Medica di Humanitas University – e l’obiettivo era di realizzare un quadro sullo stato attuale della patologia, della Ricerca, delle opzioni terapeutiche e la loro disponibilità e delle disparità esistenti in Europa. L’obiettivo di questi lavori è aumentare la conoscenza della patologia in modo da riuscire a diagnosticare il tumore più precocemente, sottolineare il ruolo di un gruppo multidisciplinare esperto nella gestione della malattia, ampliare l’utilizzo dei test molecolari, un passaggio cruciale nel percorso diagnostico-terapeutico di questi tumori. La tecnologia NGS, Next Generation Sequencing, per il sequenziamento parallelo di diversi geni permette di identificare la presenza di alterazioni molecolari e quindi sottopopolazioni di pazienti che possono beneficiare di una terapia specifica a bersaglio molecolare. Inoltre, è altrettanto importante informare sulla difficoltà di accesso ai farmaci e sulle disparità all’interno dell’Europa e nei singoli Paesi”. 

Colangiocarcinoma: la diagnosi e le cure

Il colangiocarcinoma fa parte dei tumori delle vie biliari insieme ai tumori della colecisti. In base alla sede di insorgenza si distingue in intraepatico, quando si sviluppa all’interno del fegato, extraepatico se nasce dalle vie biliari al di fuori del fegato, a sua volta suddiviso in perilare e distale. 

Il colangiocarcinoma intraepatico è il secondo più comune tumore primitivo del fegato, ogni anno colpisce in Italia 5.400 persone, è maggiormente diffuso nelle regioni del Sud dove si registra un 20% in più dei casi rispetto al Nord. “Si tratta di una patologia aggressiva e i casi sono in aumento anche nei giovani adulti, tuttavia non se ne conosce ancora in modo chiaro la ragione. I sintomi sono spesso generici e per questo il tumore viene diagnosticato tardivamente, nel 70% dei casi in fase avanzata. Un dato importante è che fino al 40% dei pazienti con colangiocarcinoma presenta un’alterazione molecolare potenzialmente trattabile con una terapia mirata, da qui l’importanza dell’accesso alla profilazione molecolare NGS. A oggi, anche in Italia, sono disponibili nuove opzioni terapeutiche come immunoterapia e terapie a bersaglio molecolare; tuttavia, il colangiocarcinoma resta uno dei tumori più complessi da curare”.

In Italia è molto attiva l’Associazione Pazienti Italiani Colangiocarcinoma (APIC) nel promuovere la conoscenza sulla malattia, anche grazie a incontri informativi con medici specializzati, e alla quale è possibile rivolgersi per trovare informazioni sicure e un elenco di centri certificati. 

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A cura di Valeria Leone
Come fare per smettere di fumare?
Data articolo:Fri, 14 Feb 2025 10:08:24 +0000

Il fumo di sigaretta, contrariamente a quanto spesso viene detto, non è un vizio. Quando ci si riferisce a un vizio, infatti, ci si riferisce a qualcosa che può essere modificato, mentre il tabagismo è un meccanismo di dipendenza innescato da una vera e propria droga, la nicotina. In Italia i fumatori sono circa 10 milioni, un numero che non tende ad abbassarsi, in particolare nella fascia tra i 15 e i 30 anni. Il fumo di sigaretta è associato all’insorgenza di varie patologie, in particolare oncologiche e cardiologiche, ma smettere di fumare può essere un percorso estremamente complicato: per questo può essere utile fare riferimento a un Centro Antifumo.

Ne parliamo con la dottoressa Licia Siracusano dell’Unità di Oncologia Medica ed Ematologia presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

La nicotina e le altre sostanze presenti nella sigaretta

La nicotina è una sostanza in grado di indurre una dipendenza sia fisica, sia psicologica. Il meccanismo della dipendenza fisica è responsabile della crisi di astinenza, quindi dell’insorgenza di una serie di sintomi e disturbi come ansia, agitazione e irritabilità, che si verificano nel momento in cui una persona prova a smettere di fumare. La dipendenza psicologica è invece indotta dalla capacità della nicotina di legarsi ad alcuni recettori, i recettori nicotinici, che provocano il rilascio dei cosiddetti “ormoni del buon umore”. Si tratta di ormoni con effetto anti ansiogeno e antidepressivo, per cui la persona che fuma si sente momentaneamente gratificata.

Oltre alla nicotina, all’interno di una sigaretta sono presenti il catrame, che al suo interno contiene oltre 7000 sostanze dannose, radioattive e cancerogene, e il monossido di carbonio che viene rilasciato durante la combustione. Il monossido di carbonio viene trasportato nel sangue, dove contribuisce alla diminuzione di ossigeno, con un conseguente aumento della produzione di globuli rossi da parte dell’organismo, che cerca di sopperire così alla mancanza di ossigeno. L’aumento di globuli rossi si associa a sua volta a un incremento della viscosità e della densità del sangue, un aspetto associato al rischio di eventi cardiovascolari come infarto e ictus.

I danni provocati dal fumo di sigaretta

Non è il numero di sigarette fumate ogni giorno ad aumentare il rischio di insorgenza di patologie, ma gli anni di esposizione al fumo. Per questo è sempre importante smettere di fumare: perché è fondamentale bloccare il prima possibile l’aumento del rischio di malattia.

Non c’è parte dell’organismo che si possa infatti considerare esente dai danni provocati dalla sigaretta. Le sostanze cancerogene si associano allo sviluppo di tumore, al polmone, ma anche al pancreas, ai reni, alla vescica, al distretto testa-collo: ogni tipo di malattia tumorale può associarsi al fumo di sigaretta.

Il monossido di carbonio, come abbiamo detto, aumenta invece la viscosità del sangue, con il rischio di insorgenza di infarto e ictus, in particolare in presenza di ulteriori comorbidità come diabete e ipertensione. E la nicotina, oltre alla dipendenza fisica e psicologica, può comportare danni al tessuto dei vasi sanguigni (tessuto endoteliale), con un ulteriore rischio di ipertensione, infarto e ictus.

I pericoli della sigaretta elettronica

La comunità scientifica non accetta la sigaretta elettronica come un’alternativa alla sigaretta tradizionale o un metodo valido o scientificamente dimostrato che possa aiutare a smettere di fumare. La sigaretta elettronica, infatti, pur non prevedendo combustione e quindi non comportando lo sviluppo di monossido di carbonio, contiene comunque nicotina, con conseguente dipendenza. Inoltre, la sigaretta elettronica contiene anche altre sostanze nocive, tra cui cancerogeni.

Come fare per smettere di fumare?

Una volta attivati i recettori nicotinici, questi restano dormienti anche se la persona successivamente smette di fumare: c’è quindi sempre il rischio che si riattivino successivamente, fumando anche una sola sigaretta. Bisogna inoltre considerare che la decisione di smettere di fumare è difficile da prendere, perché si scontra con la dipendenza psicologica, ossia la momentanea gratificazione data dalla sigaretta. La paura di perdere quella che viene definita “stampella psicologica”, infatti, è molto forte e prevale anche sulla consapevolezza dei rischi per la salute associati al fumo di sigaretta.

Per questo motivo può essere utile farsi seguire in questo percorso in un Centro Antifumo. I Centri Antifumo sono ambulatori dedicati, con medici specializzati, terapeuti e counselor in grado di fornire tutto il sostegno, anche psicologico, per aiutare le persone a smettere di fumare. Al Centro Antifumo si può tornare tutte le volte che è necessario, anche se si è già smesso una o più volte di fumare ma si è ricaduti nella dipendenza.

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A cura di cmaddaleni
Tumore al polmone: le innovazioni in chirurgia
Data articolo:Fri, 14 Feb 2025 09:55:11 +0000

Il tumore al polmone è la seconda neoplasia più comune nella popolazione maschile. Per il trattamento chirurgico la diagnosi precoce è fondamentale, ma il ricorso alla chirurgia può essere utile anche in stadi più avanzati.

Ne parliamo con il professor Giuseppe Marulli, Responsabile dell’Unità di Chirurgia Toracica e Generale presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano e docente di Humanitas University.

La chirurgia per tumori al polmone in stadio iniziale o localmente avanzati

Un tumore del polmone diagnosticato in stadio iniziale ha in genere una dimensione inferiore ai 3 centimetri ed è completamente contenuto all’interno del polmone, senza infiltrazione delle strutture circostanti o metastasi a distanza. In questo caso, l’intervento chirurgico consiste tendenzialmente nell’asportazione di un lobo polmonare, quindi di un’unità anatomica, insieme ai linfonodi, e si associa a un’elevata percentuale di guarigione (80-90%).

Tuttavia la diagnosi di neoplasia del polmone tende ad avvenire nella maggior parte dei casi in pazienti che hanno tumori già avanzati o localmente avanzati. La chirurgia può in ogni caso avere intenti curativi anche nei tumori localmente avanzati. Per tumore polmonare localmente avanzato si intende un’infiltrazione diretta delle strutture circostanti, come la via aerea, la trachea, i grossi vasi polmonari, la parete toracica o il diaframma, oppure una diffusione locoregionale per via linfatica ai linfonodi vicini al tumore (linfonodi ilari), o lungo la via aerea (linfonodi mediastinici).

In questi casi, il paziente viene preso in carico da un team multidisciplinare costituito da oncologo, radioterapista, radiologo, anatomopatologo e chirurgo. Gli specialisti scelgono quindi la strada di trattamento più adeguata, che può comportare un trattamento pre operatorio seguito da un intervento chirurgico ed eventualmente da un ulteriore trattamento, oppure da un intervento chirurgico seguito poi da un trattamento post operatorio.

Le innovazioni della chirurgia del polmone

Oggi per la chirurgia del polmone si hanno a disposizione strumenti dedicati per la chirurgia mininvasiva, come tecnologie robotiche, ottiche 3D, 4K e staplers robotiche: tutti strumenti che consentono di eseguire gli interventi con piccolissime incisioni e non per via open, che comporta un’incisione notevole. Anche la quantità di polmone da resecare si è sempre più ridotta, ottenendo gli stessi risultati dal punto di vista oncologico.

Questi nuovi approcci chirurgici comportano anche dei vantaggi nella fase post operatoria, oltre a una maggiore rapidità nel recupero generale. L’intervento tradizionale per via open, infatti, era caratterizzato da un importante dolore post operatorio e dal rischio di insorgenza di svariate complicanze. Invece gli interventi mininvasivi consentono una riduzione delle complicanze e una ripresa molto veloce, per cui il paziente può ritornare alle proprie attività abituali in tempi rapidi, o, se c’è la necessità di trattamenti post operatori, di iniziarli con maggiore facilità.

Quali pazienti possono essere sottoposti a chirurgia mininvasiva?

La chirurgia mininvasiva può essere effettuata su pazienti con determinate caratteristiche cliniche. L’accesso mininvasivo è generalmente riservato ai tumori in stadio iniziale, quindi con un nodulo inferiore ai 3 centimetri, localizzato e senza coinvolgimento delle strutture circostanti. In questi casi, in particolare se il nodulo è inferiore ai 2 centimetri, l’intervento standard è in genere la segmentectomia, ossia l’asportazione di un solo segmento di polmone, quindi circa un decimo del polmone con tutti i linfonodi circostanti.

Nelle neoplasie localmente avanzate, con un coinvolgimento delle strutture aeree, vascolari o linfonodali, questo tipo di intervento non è né possibile, né indicato. In centri altamente specializzati, tuttavia, si possono eseguire interventi di ricostruzione sia della via aerea, sia della via vascolare, per ridurre al minimo la parte di polmone da resecare.

In ogni caso, oggi, la maggioranza dei pazienti per cui è indicato il trattamento chirurgico può beneficiare della chirurgia mininvasiva, anche grazie alla diffusione dello screening con TAC a bassa dose di radiazioni, che consente di individuare i tumori in stadi molto precoci.

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A cura di cmaddaleni
Ostruzione nasale e disturbi del sonno: quale legame?
Data articolo:Tue, 11 Feb 2025 14:01:17 +0000

Dormire bene dovrebbe essere un’esperienza comune a tutti, ma molte persone presentano disturbi del sonno che impediscono il corretto riposo notturno. Se sottostimati e non trattati, questi disturbi possono condurre allo sviluppo di condizioni anche severe. Quali sono le conseguenze di un sonno scadente e quali sono i trattamenti a disposizione per risolvere il problema? 

Ne parliamo con il dottor Luca Malvezzi, specialista in Otorinolaringoiatria presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e Responsabile dell’Unità di Otorinolaringoiatria presso Humanitas San Pio X

Disturbi del sonno: quali possono essere le cause? 

Un sonno di qualità garantisce il recupero delle energie fisiche e mentali spese nel corso della giornata ed è dunque un elemento fondamentale per il benessere personale. 

Respirare male dal naso è un problema molto comune1, ma una scadente respirazione non è sempre e solo riconducibile alla deviazione del setto nasale, come spesso si tende a fare semplificando una questione più complessa.

In presenza di una respirazione nasale non ottimale è sempre necessario valutare l’efficienza della valvola nasale, ovvero il contorno delle narici. La valvola nasale svolge un ruolo fondamentale per la corretta respirazione, in particolare in fase di inspirazione. La debolezza o l’eccessiva flessibilità della sua componente laterale o mediale può limitare la respirazione nasale (anche in assenza di setto deviato), o può accentuarla in caso di deviazione del setto e ipertrofia dei turbinati. 

Un altro elemento da non sottovalutare è l’infiammazione a carico delle vie respiratorie, come per esempio in caso di ipertrofia dei turbinati nasali e rinosinusite nasale

I turbinati inferiori, posti nella parete laterale della cavità nasale, sono sollecitati da variazioni di temperatura, umidità e stimoli di natura allergica. Una loro infiammazione locale o irritazione determina ipertrofia: questo aumento di volume limita la respirazione, impedendo il normale passaggio di aria.

La rinosinusite con e senza poliposi nasale è un’infiammazione a carico della mucosa naso-sinusale che può avere diverse cause. Si tratta di una patologia ad alto impatto socio-economico2 anche per le comorbilità a essa associate. La combinazione fra una struttura anatomica complessa (il massiccio facciale) e l’infiammazione della mucosa può determinare congestione nasale e ostruzione respiratoria in un quadro clinico che comprende sintomi quali rinorrea (muco dal naso), iposmia (perdita parziale dell’olfatto), disgeusia (alterata percezione dei sapori), dolore facciale, ovattamento auricolare e possibile febbricola

Quali sono i rischi dei disturbi ostruttivi? 

Il naso svolge due importanti funzioni, filtrando e termo-umidificando l’aria che raggiunge i polmoni. 

Disturbi ostruttivi del naso portano però, durante il sonno, a respirare con la bocca. In questo modo, senza la funzione di filtro del naso che impedisce l’ingresso a svariati agenti esterni, l’aria che arriva ai polmoni ha una maggior presenza di agenti patogeni, con un aumentato rischio di sviluppare infezioni e infiammazioni. Inoltre, l’aria immessa nell’organismo è più fredda, perché viene meno il ruolo di termoregolazione del naso. 

Chi respira con la bocca presenta poi anche un maggior rischio di russamenti, perché viene meno il controllo sulla muscolatura della faringe. Aumenta la produzione di muco e la sudorazione in relazione ad una maggiore dispersione di CO2 e, conseguentemente, maggiore dispersione di sali minerali preziosi come magnesio e calcio, che può manifestarsi con stanchezza mentale e fisica durante il giorno3

Un tema importante quando si parla di ostruzione nasale e disturbi del sonno è quello delle apnee ostruttive, che si manifestano come conseguenze acute del russamento. L’apnea notturna determina un collasso delle pareti della gola che ostruisce il flusso d’aria e chi ne soffre sembra che trattenga il respiro. Questo fenomeno attiva un meccanismo di protezione del cervello, che tende ad aumentare l’ossigenazione e accelerare il respiro, causando l’interruzione del sonno. Sebbene le apnee notturne non ostacolino del tutto il passaggio dell’aria, è necessario non sottovalutarle per evitare gravi complicazioni.

Si stima l’apnea coinvolga in Italia 15 milioni di persone, con un impatto socio sanitario rilevante, ma che una minima percentuale arrivi a una diagnosi. Pertanto, è importante sensibilizzare sul tema e non sottovalutare – soprattutto in presenza di russamento – sintomi quali eccessiva stanchezza durante il giorno, calo dell’attenzione e della concentrazione, problemi di memoria, ingiustificata sonnolenza diurna. 

Cosa fare in presenza di disturbi del sonno? 

Chi presenta un sonno disturbato può mettere in atto alcune strategie per aiutare il riposo notturno. Particolare importanza ha l’alimentazione, che a cena deve essere più leggera con un apporto calorico inferiore rispetto a quello necessario durante il giorno. Anche praticare attività fisica in maniera regolare, ma non prima di andare a dormire, può essere utile, così come contenere l’assunzione di alcolici ed evitare il fumo di sigaretta. 

Oltre all’attenzione allo stile di vita, non bisogna sottovalutare i sintomi né l’ostruzione nasale, sebbene molte persone tendano a ignorarla perché si sono abituate a respirare in modo scadente e per loro è la normalità. 

Per misurare e quantificare l’ostruzione respiratoria nasale si ricorre alla rinomanometria: un esame semplice e non invasivo, indispensabile per misurare il grado di resistenza al flusso di aria in inspirazione ed espirazione nelle fosse nasali. La polisonnografia è invece l’esame che verifica la qualità del sonno, individuando eventuali apnee notturne e classificandole in lievi, moderate e gravi. Un’altra opzione è rappresentata dalla Drug Induced Sleep Endoscopy (DISE), un esame che valuta un possibile collasso delle vie aeree superiori responsabile delle apnee. Il paziente viene addormentato in sala operatoria, in condizioni simili a quelle notturne, e viene sottoposto a una valutazione endoscopica della respirazione. 

Una corretta diagnosi deve sempre precedere la proposta terapeutica e si rivela centrale – nella presa in carico del paziente – un approccio personalizzato, che predica l’effetto delle cure, prevenga le possibili complicanze e renda partecipe il paziente (Medicina di Precisione o Medicina 4P). 

Quando serve la chirurgia?

In alcuni casi, come in presenza di ostruzione respiratoria nasale, provocata per esempio da ipertrofia dei turbinati inferiori, deviazione del setto nasale e/o valvola nasale inefficace, è possibile dover ricorrere alla chirurgia. Si tratta di un intervento in anestesia generale, eseguito in giornata (day surgery) e con una ripresa veloce, senza l’utilizzo di tamponi nasali post-chirurgia. 

In presenza di apnee notturne, invece, può essere opportuno intervenire in fretta e porre il paziente in condizioni di sicurezza. In questo senso il trattamento può comportare l’utilizzo di C-PAP, un apparecchio respiratorio che tramite una mascherina eroga un flusso d’aria verso il palato, per evitare il collasso delle strutture molli di faringe, laringe e palato che causano l’apnea.

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A cura di Valeria Leone
Esercizi per la postura: a cosa serve la rieducazione posturale
Data articolo:Tue, 11 Feb 2025 13:58:40 +0000

Ci sono alcuni lavori, come ad esempio quello in ufficio, che richiedono lo stare seduti nella stessa posizione per ore, magari nemmeno su sedie ergonomiche.
Le posture scorrette possono provocare dolori cervicali, fastidi alla colonna vertebrale e tensioni muscolari alle spalle che possono portare a disturbi a lungo termine. 

Conoscere quali sono le posizioni errate, le conseguenze che comportano e le strategie per correggerle è fondamentale per preservare la salute della schiena. In questo senso può essere importante la rieducazione posturale. Vediamo di cosa si tratta con il professor Alessio Baricich, responsabile del Dipartimento di Riabilitazione e Recupero Funzionale dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano e docente presso Humanitas University

L’importanza di una postura corretta

Quando si lavora in ufficio, magari di fronte al computer, bisogna mantenere il capo allineato al baricentro del corpo, garantendo che spalle, torace e bacino siano sullo stesso piano. Questa posizione aiuta a mantenere la testa eretta, evitando di inclinarla in avanti, un movimento che genera un sovraccarico sui muscoli posteriori.

Il computer va messo a una distanza di circa 60-70 cm dal viso, con il bordo superiore dello schermo allineato all’altezza degli occhi, così da prevenire inclinazioni del collo verso l’alto o il basso. 

Un altro rischio legato al lavoro in ufficio di chi interagisce spesso con i clienti è rappresentato dalla disposizione dello schermo del computer su un lato. In questa configurazione, il lavoratore si trova costretto a spostare continuamente il capo: prima guardando davanti a sé per interagire con la persona, poi si gira di lato per utilizzare il computer. Questa dinamica porta spesso a compiere movimenti di torsione del collo, con il busto orientato frontalmente.

Si possono evitare questi movimenti utilizzando una sedia girevole con le rotelle.

Anche il modo in cui ci si siede può influire negativamente sulla salute della schiena. 

Spesso si tende erroneamente a considerare più comodo sedersi sull’osso sacro, invece di appoggiarsi sulle ossa ischiatiche, che rappresentano il corretto punto di sostegno. Questa postura, con la colonna vertebrale in flessione, può sembrare più rilassante perché sfrutta la forza di gravità e richiede un minore sforzo muscolare. Comporta però una tensione anomala sulle strutture posteriori della schiena e del collo, dato che la testa deve compensare l’angolazione per mantenere gli occhi allineati allo schermo. 

Questa cattiva abitudine è particolarmente diffusa tra chi non pratica attività fisica regolare. Al contrario, chi è abituato a fare sport con costanza riesce più facilmente a mantenere la colonna lombare in una posizione eretta, riducendo l’affaticamento e lo stress sulle strutture muscoloscheletriche. 

Una menzione a chi lavora da casa, oppure utilizza il pc portatile per molte ore durante il giorno: la tendenza di molte persone è quella di tenere il laptop sulle gambe, magari mentre si è seduti sul divano. Questa posizione costringe il collo a una flessione in avanti molto forte e sottopone i muscoli posteriori a uno sforzo prolungato che può generare dolore cervicale. Chi lavora da casa, quindi, dovrebbe cercare, per quanto possibile, di allestire una postazione ergonomica simile a quella di un ufficio. 

Un ultimo aspetto, molto importante in tutti i contesti descritti: anche una posizione ergonomicamente corretta, se mantenuta per periodi prolungati, espone a un rischio di sovraccarico funzionale. È dunque fondamentale, almeno una volta all’ora, eseguire qualche esercizio di mobilizzazione e stretching.

Postura scorretta: le conseguenze per la schiena

Mantenere una postura scorretta nel tempo può causare un sovraccarico su diversi gruppi muscolari, con un coinvolgimento del rachide cervicale e lombare. Oltre ai problemi muscoloscheletrici, una postura inadeguata può influire negativamente sulla funzionalità degli organi interni.

Ad esempio, la compressione di addome e intestino può favorire la comparsa di disturbi come il reflusso gastroesofageo e la stitichezza, mentre una tensione cronica a livello cervicale può essere responsabile di sintomi quali acufeni o vertigini.

Un ulteriore aspetto da prendere in considerazione riguarda l’uso scorretto degli arti superiori, che può sovraccaricare la muscolatura delle braccia. Questo è particolarmente evidente a livello dell’articolazione del gomito, dove il ripetersi di movimenti scorretti può portare allo sviluppo di epicondiliti.

Qual è la postura corretta?

La postura ideale si basa sulla cosiddetta “regola dei 90°“, che prevede il mantenimento di un angolo retto nelle principali articolazioni del corpo. Per raggiungere questo obiettivo, la sedia deve essere non solo girevole ma anche regolabile in altezza, permettendo ai piedi di poggiare saldamente a terra e alle ginocchia di formare un angolo di 90°. Allo stesso modo, l’altezza della scrivania deve consentire agli avambracci di appoggiarsi comodamente, mantenendo le spalle rilassate e i gomiti posizionati anch’essi ad angolo retto. 

Questa configurazione aiuta i muscoli di schiena e spalle a lavorare in modo ottimale, prevenendo l’insorgenza di dolori e disturbi legati alla colonna vertebrale e alla cervicale.

Inoltre, è fondamentale sottoporsi a controlli periodici della vista da un oculista. Problemi visivi non corretti, infatti, possono portare ad assumere posizioni scorrette, come avvicinare eccessivamente la testa allo schermo, con conseguenti ripercussioni sulla postura generale.

Che cos’è la rieducazione posturale?

La rieducazione posturale è una ginnastica specifica basata su una serie di esercizi mirati ad allentare le tensioni che spesso causano dolore, migliorare elasticità, tonicità, forza e resistenza muscolare, ma anche a raggiungere l’equilibrio strutturale e funzionale del nostro sistema muscolo-scheletrico.

Dopo un’attenta valutazione dei movimenti e della postura del paziente, lo specialista elabora un programma di rieducazione posturale personalizzato, basato sul rinforzo e sull’allungamento di determinati gruppi muscolari, sulla respirazione e su esercizi statici e dinamici. Lo specialista fornirà anche dei consigli pratici per eseguire correttamente i movimenti quotidiani e mantenere una postura corretta. 

Si possono utilizzare diverse tecniche (allungamento muscolare), esercizi di ginnastica propriocettiva (per migliorare l’equilibrio e la coordinazione), esercizi per gli occhi (per correggere eventuali problemi visivi che influenzano la postura).

Rieducazione posturale: come si svolge?

Il primo step, nel trattamento dei dolori posturali, è valutare la tipologia di dolore cercando di ottenerlo e controllarlo in sede di visita attraverso manipolazioni, terapie fisiche o trattamenti fisioterapici. Dunque, vengono corrette le cause alla base del disturbo: questo processo abitualmente avviene in palestra o comunque mediante un lavoro attivo da parte del paziente. 

A seconda della problematica e delle necessità del paziente, vengono stabiliti dei percorsi personalizzati, tendenzialmente della durata di 6, 8 o 10 sedute, con cadenza bisettimanale, trisettimanale, o quadrisettimanale. 

La rieducazione posturale, insomma, è fondamentale, perché solo grazie a un corretto rinforzo muscolare sarà possibile educare i muscoli ad assumere e mantenere determinate posizioni. Il paziente, con l’aiuto dello specialista, può poi individuare l’attività fisica più adatta alle sue esigenze per contrastare attivamente e a lungo termine la sedentarietà, oltre ad apprendere i “piccoli trucchi” da applicare durante le sessioni di lavoro. 

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A cura di cmaddaleni
I sintomi della bronchite e come si cura
Data articolo:Tue, 11 Feb 2025 13:55:42 +0000

La bronchite è una tra le patologie più frequenti dell’apparato respiratorio ed è causata da un’infiammazione della mucosa che riveste i bronchi, le strutture che trasportano l’aria all’interno dei polmoni. 

La bronchite si distingue in acuta e cronica, a seconda degli agenti scatenanti la patologia e della durata della stessa. 

Nella maggior parte dei casi la bronchite acuta è causata da un’infezione a carattere virale e stagionale (virus dell’influenza, coronavirus, virus respiratorio sinciziale), complicata talvolta da una sovrainfezione batterica. 

La bronchite cronica è invece un’infiammazione persistente della mucosa bronchiale, provocata in genere dall’inalazione di fattori specifici come il fumo di sigaretta, agenti inquinanti o polveri o sostanze tossiche sia in ambiente domestico che lavorativo. 

Uno stato di infiammazione cronica può portare a un rimodellamento della struttura dei bronchi, alla persistenza di sintomi (tosse, escreato purulento, dispnea) ed evolvere in condizioni patologiche non reversibili, quali la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO)

Quali sono i sintomi della bronchite acuta e come si cura? Ne parliamo con la dottoressa Paola Scarano, pneumologa presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

Quali sono i sintomi della bronchite acuta e cronica?

Il sintomo caratteristico della bronchite acuta è la tosse produttiva, con escreato dapprima chiaro che successivamente può divenire purulento.

Altri sintomi includono respiro difficoltoso e sibilante, faringodinia, astenia e, in alcuni casi, febbre. I sintomi tendono a regredire nell’arco di due-tre settimane.

Bisogna prestare particolare attenzione nel caso sia presente febbre con sensazione di oppressione toracica o dolore toracico che aumenta con gli atti respiratori, poiché potrebbero indicare la presenza di una patologia più severa della bronchite, quale la polmonite, per la quale è opportuno avvertire immediatamente il medico per i relativi approfondimenti diagnostici (per esempio RX torace o TC torace) e terapeutici. 

La bronchite cronica è causata da un’infiammazione persistente della mucosa bronchiale ed è caratterizzata dalla presenza di tosse ed escreato persistenti per almeno 2-3 mesi l’anno per due anni consecutivi. Spesso si associa dispnea (fiato corto) durante i movimenti e l’escreato, talvolta purulento, spesso è denso e difficile da eliminare. 

Come si cura la bronchite acuta

La terapia della bronchite acuta è volta al trattamento della causa scatenante; trattandosi per la maggior parte dei casi di una patologia virale, non sono necessarie particolari terapie farmacologiche se non l’uso di farmaci sintomatici. 

È consigliato un periodo di riposo, adeguata idratazione (soprattutto se è presente febbre) ed eventualmente potrebbero risultare utili farmaci mucolitici, antipiretici e farmaci antinfiammatori non steroidei. 

L’uso di terapia antibiotica è riservato solo a quei casi in cui si sospetta infezione o sovrainfezione di origine batterica.  

I sintomi della bronchite acuta si risolvono solitamente in 2-3 settimane. 

Bronchite cronica: in cosa si distingue?

Come già anticipato, la bronchite cronica è provocata da un’infiammazione persistente della mucosa bronchiale, comportando di conseguenza un’alterazione della struttura della parete dei bronchi, responsabile dei segni e sintomi della patologia, quali tosse con espettorazione e mancanza di fiato, spesso sotto sforzo. 

Tra i fattori di rischio della bronchite cronica vi sono primo fra tutti il fumo di sigaretta, compreso il fumo passivo, seguito dall’esposizione professionale a polveri o sostanze chimiche e dall’inquinamento atmosferico. 

Da un punto di vista diagnostico, oltre a un’accurata anamnesi ed esame obiettivo, nei pazienti con bronchite cronica risulta utile eseguire una spirometria globale con test di broncodilatazione farmacologica, per poter valutare eventuali alterazioni della funzionalità respiratoria e la presenza di una broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). 

Nella gestione della bronchite cronica è fondamentale rivolgersi a uno specialista pneumologo, affinché venga impostata una corretta terapia e un adeguato programma di follow up. 

Come prevenire la bronchite acuta e cronica?

È possibile prevenire l’insorgenza della bronchite acuta innanzitutto contrastando le infezioni respiratorie grazie alle vaccinazioni previste dal piano nazionale di prevenzione vaccinale (vaccino antinfluenzale, vaccino antipneumococco, vaccino anti SARS CoV-2, vaccino contro il virus respiratorio sinciziale). 

Soprattutto per la bronchite cronica, è fondamentale evitare l’esposizione al fumo di sigaretta, a polveri e agenti chimici che comportano l’irritazione delle mucose bronchiali facilitando quindi lo sviluppo di processi infiammatori cronici con l’avanzare del tempo.

Se non possibile evitare l’esposizione diretta ad agenti irritativi e tossici, soprattutto in contesti professionali, è raccomandato l’utilizzo di mascherine. 

Si raccomanda inoltre di lavarsi frequentemente le mani prestando attenzione a non portarle vicino al naso e alla bocca, specialmente se si entra in contatto con persone con disturbi respiratori.

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A cura di cmaddaleni


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