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#news #ospedale #humanitas #Rozzano #Milano
La primavera si caratterizza per fioriture, sbalzi climatici, escursioni termiche nel corso della giornata, allergia e raffreddori. Rinite allergica e rinosinusite possono manifestarsi in modo simile, ma possono sottendere cause differenti e diverso deve essere il percorso terapeutico. Attenzione a non trascurare i sintomi e richiedere il consulto dello specialista otorinolaringoiatra.
Approfondiamo l’argomento con il dottor Luca Malvezzi, specialista in Otorinolaringoiatria e Chirurgia cervico facciale presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
La rinite allergica e il raffreddore, ovvero rinosinusite virale e rinosinusite batterica, possono inizialmente manifestarsi con lo stesso quadro clinico. Attenzione però: intensità e soprattutto durata dei sintomi caratterizzano la differenza fra le due patologie, oltre che naturalmente il profilo infiammatorio del paziente.
I sintomi sono:
Il raffreddore con secrezioni sierose, andamento stagionale e coerente con le esposizioni allergiche caratterizza l’allergia. Sintomi intensi ma fugaci, con risoluzione nell’arco di massimo 7-10 giorni sono da riferirsi a un raffreddore di natura virale. L’impatto dei sintomi sulle alte e basse vie aeree (asma) può però trasformare i sintomi in cronici – quando presenti oltre le 12 settimane – e avere un impatto socio-sanitario negativo oltre che un impatto sulla qualità di vita percepita dal paziente.
La biodiversità del nostro paese regala variegate fioriture. Queste ultime, presenti lungo tutto l’anno con l’eccezione di novembre, hanno un impatto negativo sugli allergici. L’aumento delle secrezioni mucose insieme alla complessità anatomica della via di drenaggio del muco e del massiccio facciale tutto, possono favorire lo sviluppo di un quadro clinico patologico. La mucosa di naso e seni paranasali, sensibile e iper-reattiva anche a stimoli minimi, ad esempio il passaggio da una stanza all’altra, gonfiandosi blocca il deflusso del muco dai seni paranasali al naso e quindi alla faringe. Si sviluppa così un quadro sintomatologico, che può anche essere responsabile di dolori facciali acuti alla rapida variazione pressoria: l’atterraggio in aereo.
Il ruolo dell’infiammazione, nei sintomi che ricorrono, non deve mai essere sottovalutato in quanto può nascondere una problematica più ampia.
È importante dunque distinguere tra problemi allergici e non allergici, riconoscere il possibile legame con le basse vie aeree (come l’asma), identificare il tipo di infiammazione e la possibile evoluzione verso forme con sintomi difficilmente controllabili. Questo richiede un percorso diagnostico-terapeutico multidisciplinare, in linea con i moderni concetti di medicina personalizzata e rispettoso degli standard di cura.
In caso di congestione causata da raffreddore virale l’attesa è il miglior alleato. I sintomi passeranno in pochi giorni in modo spontaneo. Tuttavia, se gli impegni della giornata sono pressanti, un aiuto può arrivare dagli spray decongestionanti vasocostrittori, solo per pochi giorni però.
I sintomi allergici meritano un trattamento più ampio e una gestione multidisciplinare. Lo spray cortisonico locale è efficace e può essere utilizzato in sicurezza per tutto il periodo dell’esposizione ad allergeni.
In entrambe le situazioni, ancor meglio nella quotidianità, il lavaggio nasale con soluzione fisiologica nella sua semplicità è efficace per diluire il muco in eccesso favorendone la spontanea rimozione da parte delle cellule ciliate della mucosa nasale.
The post Primavera: raffreddore o allergia appeared first on Humanitas.
La perimenopausa è un passaggio naturale e rappresenta l’intero periodo di transizione verso la menopausa, caratterizzato da una crescente irregolarità dei cicli mestruali. Durante questa fase, le ovaie riducono progressivamente la produzione di ormoni sessuali – estrogeni, progesterone e androgeni – portando a un’alternanza o assenza dei cicli mestruali.
I sintomi, la durata e l’età di inizio della perimenopausa variano da persona a persona. In alcuni casi può iniziare già attorno ai 40 anni, mentre in altri può manifestarsi più tardi; questo periodo può durare solo pochi mesi, così come estendersi dai quattro ai dieci anni. La perimenopausa si conclude con la menopausa, a distanza di 1 anno dall’ultimo ciclo mestruale.
Quali sono i sintomi della perimenopausa? Ne parliamo con la professoressa Nicoletta Di Simone, responsabile del Centro Multidisciplinare per la menopausa dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas.
Il primo segnale di perimenopausa è l’irregolarità del ciclo mestruale, che può cambiare di frequenza, durata e intensità. A queste variazioni si aggiungono sintomi simili a quelli della menopausa.
I sintomi della perimenopausa possono essere diversi, ma molte donne avvertono almeno uno dei seguenti:
Le irregolarità del ciclo mestruale sono frequenti e fisiologiche in perimenopausa, ma è importante sapere che anche altre condizioni possono causare anomalie nel flusso mestruale. Per questo, in caso di modifiche nel ciclo, bisogna rivolgersi a un ginecologo per escludere cause diverse dalla perimenopausa. Oltre agli squilibri ormonali tipici di questa fase, infatti, possono provocare sanguinamenti anomali e alterazioni del ciclo condizioni come:
Il Centro offre alle donne tra i 35 e i 65 anni un percorso dedicato, sia in caso di perimenopausa, sia in caso di menopausa fisiologica o iatrogena, menopausa prematura e insufficienza ovarica prematura.
In presenza di alterazioni del ciclo mestruale o sintomi specifici sarà possibile accedere a un percorso diagnostico con il supporto di esami di laboratorio e strumentali, come la Densitometria Ossea a Raggi X (DEXA), la mammografia ed ecografia mammaria, e di un consulto clinico con specialisti in Ginecologia, Cardiologia, Endocrinologia, Reumatologia e Radiologia.
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I linfonodi sono piccoli organi composti anche da cellule del sistema immunitario, che svolgono la funzione di primo filtro di difesa, intercettando sostanze tossiche, agenti infettivi e cellule neoplastiche ma anche infiammazioni, modificazioni ormonali o traumi. Quando vengono esposti ad agenti estranei o a processi infiammatori, i linfonodi reagiscono ingrossandosi oppure modificando la loro morfologia e struttura.
L’ecografia dei linfonodi è comunemente impiegata in ambito clinico quando compaiono rigonfiamenti nodulari superficiali e profondi. Nel corpo umano sono presenti numerosi linfonodi, di cui molti si trovano in posizione superficiale o relativamente superficiale, per esempio: nel collo, nelle ascelle e nell’inguine. Queste regioni possono essere accuratamente valutate tramite ecografia.
Approfondiamo l’argomento con la dottoressa Manuela De Crescenzo, ecografista dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
Normalmente i linfonodi non sono palpabili. In alcuni casi però, possono ingrossarsi e diventare visibili anche alla persona. Questo ingrossamento può essere causato da varie condizioni patologiche e non patologiche, per esempio faringiti, infezioni in generale, problemi dentali ma anche variazioni del ciclo ormonale oppure tumori.
Durante un’infiammazione o infezione, l’ingrossamento dei linfonodi può essere accompagnato da dolore locale e, talvolta, da rossore cutaneo. Tuttavia, nelle prime fasi dell’interessamento, i linfonodi possono rimanere di dimensioni ridotte, anche se possono mostrare modifiche morfologiche durante l’esame ecografico.
L’ecografia permette di esaminare le dimensioni e la forma dei linfonodi e di individuare eventuali cambiamenti nella loro struttura e nel flusso sanguigno. Questo permette di differenziare con una buona probabilità i linfonodi infiammatori che non richiedono ulteriori controlli da quelli di aspetto dubbio.
L’ecografia dei linfonodi superficiali viene eseguita principalmente per due ragioni:
Come tutti gli esami ecografici, l’indagine non è invasiva: viene applicato un gel sulla pelle nuda della zona da analizzare e vi viene appoggiata la sonda ecografica. Il gel ha la funzione di facilitare la trasmissione degli ultrasuoni, permettendo così di ottenere un’immagine ottimale.
Nel corso dell’esame vengono valutate diverse caratteristiche morfologiche che insieme all’anamnesi permettono, al medico ecografista, di fare una diagnosi oppure di decidere di richiedere un approfondimento con altre metodiche.
L’ecografia dei linfonodi permette di esaminare le dimensioni e la forma dei linfonodi del collo e di individuare eventuali cambiamenti nella loro struttura e nel flusso sanguigno.
The post Linfonodi del collo: a cosa serve l’ecografia? appeared first on Humanitas.
La dermatite atopica (nota anche come eczema atopico) è una patologia recidivante o cronica a carico della pelle. Si manifesta con sintomi dolorosi e fastidiosi, tra cui prurito, eritemi, vescicole e altre manifestazioni che possono interessare diverse aree del corpo, come mani, piedi, gomiti, ginocchia, polsi, caviglie, torace, collo e, soprattutto nei bambini, il viso.
La dermatite atopica può compromettere significativamente la qualità della vita, poiché influisce sulla concentrazione, in ambito lavorativo e scolastico, e disturba il sonno notturno. Inoltre, ha un impatto anche a livello psicologico: quando colpisce aree visibili del corpo, infatti, può influire negativamente sull’autostima.
Ad aprile 2025 torna la Campagna Nazionale di sensibilizzazione sulla dermatite atopica “Dalla parte della tua pelle”, rivolta ad adulti e adolescenti dai 12 ai 17 anni, promossa dalla Società Italiana di Dermatologia e Malattie Sessualmente Trasmesse (SIDeMaST). Anche l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano partecipa a questa iniziativa con un open day di visite gratuite lunedì 7 aprile 2025, con il contributo della dottoressa Alessandra Narcisi, specialista in Dermatologia.
Ne parliamo con il professor Marco Ardigò, Capo Sezione dell’Unità di Dermatologia Oncologica presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano, Membro del Consiglio Direttivo SIDeMaST e Responsabile per le Campagne di sensibilizzazione.
La dermatite atopica è riconoscibile da sintomi come:
Si tratta di una patologia con cause multifattoriali, che insorge per una combinazione di fattori immunologici, ambientali e genetici. In particolare, la barriera cutanea delle persone con dermatite atopica, risulta alterata. In questo modo gli strati inferiori della pelle entrano in contatto con sostanze che in condizioni normali non oltrepassano la barriera. La dermatite atopica si manifesta in particolare in momenti di stress psicofisico o con il cambio di stagione, mentre sono più rare le reazioni ad allergeni alimentari.
La dermatite atopica viene curata con farmaci cortisonici topici oppure immunomodulatori a uso locale. Utili, in particolare per contenere il prurito, gli antistaminici orali. Quando la dermatite atopica è particolarmente estesa per alcuni pazienti è possibile ricorrere alla fototerapia, mentre in presenza di una forma già grave si ricorre a steroidi sistemici o altri farmaci immunosoppressori oppure ad anticorpi monoclonali.
In generale, ma soprattutto se si ha familiarità con la dermatite atopica, è possibile prevenirne l’insorgenza seguendo alcune accortezze. Per esempio evitare lavaggi e bagni eccessivamente lunghi e asciugare la pelle con delicatezza e tamponando. Utile anche usare detergenti delicati e creme idratanti e lenitive, usare filtri solari quando ci si espone alla luce solare ed evitare indumenti in materiale sintetico.
Alla sua quinta edizione, “Dalla parte della tua pelle”, la Campagna nazionale di sensibilizzazione sulla Dermatite Atopica promossa da SIDeMaST, si riconferma un momento fondamentale di informazione e confronto con gli specialisti dermatologi.
L’edizione 2025 della Campagna prevede la possibilità di eseguire le visite di controllo gratuite anche agli adolescenti, a partire dai 12 anni, e l’esecuzione in autonomia del pre-screening al seguente link.
Il pre-screening è un questionario di facile compilazione, utile a valutare la presenza di segni riconducibili alla dermatite atopica. Il sistema, tramite un punteggio assegnato in automatico in base alle risposte, in presenza di segni associati alla dermatite atopica assegnerà all’utente un codice univoco per la prenotazione.
Le visite presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano si svolgeranno lunedì 7 aprile 2025 dalle 14.00 alle 16.00. Anche per accedere alla visita gratuita di Humanitas è richiesta la compilazione del test di pre-screening, che verificherà l’idoneità al consulto dermatologico. Il test di pre-screening è quindi obbligatorio per prenotare il consulto dermatologico gratuito. Una volta eseguito il test e ricevuto il codice univoco si può procedere con la prenotazione della visita chiamando il call center.
The post Dermatite atopica: anche in Humanitas visite gratuite per la campagna nazionale appeared first on Humanitas.
Un gruppo congiunto di ricercatori di Humanitas e dell’Università del Piemonte Orientale ha identificato un nuovo meccanismo che collega le alterazioni del metabolismo del colesterolo alla progressione del cancro e alla risposta immunitaria, con potenziali implicazioni per la prevenzione e le terapie antitumorali.
Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Cancer Discovery, mostra in particolare come diversi tumori alterino il metabolismo epatico del colesterolo, aumentando il suo livello nel sangue, e come questo aumento del colesterolo si traduca a sua volta in una soppressione della risposta immunitaria, che favorisce poi la crescita e la diffusione del cancro.
Lo studio è stato guidato da Antonio Sica, responsabile del laboratorio di Immunometabolismo e Tumori presso IRCCS Istituto Clinico Humanitas e professore ordinario presso l’Università del Piemonte Orientale.
Il gruppo di ricercatori ha inoltre identificato la proteina – il fattore di trascrizione ROR? – che collega i due fenomeni: ROR? funziona come un sensore in grado di rilevare i livelli elevati di colesterolo e stimolare di conseguenza la produzione di cellule immunosoppressive, che ostacolano la risposta antitumorale dell’organismo.
“Un aspetto particolarmente rilevante della scoperta è che i farmaci usati abitualmente per il trattamento dell’ipercolesterolemia sono in grado di migliorare l’efficacia dell’immunoterapia oncologica, almeno nei modelli sperimentali del tumore,” spiega Antonio Sica. “Questo risultato apre nuove prospettive per l’ottimizzazione delle terapie contro il cancro, in particolare per quei pazienti che sviluppano resistenza ai trattamenti immunoterapici.”
Questi risultati rafforzano l’idea che il metabolismo lipidico e il sistema immunitario siano profondamente interconnessi. Comprendere questi legami ci permetterà di identificare nuovi bersagli terapeutici e strategie più efficaci per potenziare la risposta immunitaria contro il cancro, ma apre anche nuove prospettive per la prevenzione. L’alterazione del metabolismo del colesterolo potrebbe infatti rappresentare un fattore di rischio da monitorare con maggiore attenzione: strategie per il controllo dei livelli lipidici potrebbero contribuire non solo alla salute cardiovascolare, ma anche alla riduzione del rischio di sviluppare tumori. L’identificazione di biomarcatori legati al colesterolo potrebbe quindi favorire diagnosi più precoci e interventi preventivi mirati.
“Scoprire che un farmaco già disponibile per l’ipercolesterolemia possa migliorare l’efficacia dell’immunoterapia oncologica è un risultato rilevante, ad alto potenziale traslazionale,” conclude Sica. “Questa ricerca apre nuove opportunità per integrare strategie metaboliche e immunologiche nella lotta ai tumori, offrendo nuove speranze ai pazienti e prospettive innovative per la medicina di precisione.”
The post Scoperta sul ruolo del metabolismo del colesterolo nella progressione tumorale appeared first on Humanitas.
L’endometriosi è un’anomalia delle cellule endometriali (le cellule normalmente presenti nella cavità uterina) non ancora del tutto nota, per via della complessità della patologia e delle difficoltà nella diagnosi.
L’endometriosi presenta inoltre complessità e percorsi differenziati dal punto di vista terapeutico, dato che i differenti stadi della malattia e la diversa tipologia delle pazienti che ne sono interessate, richiedono approcci e trattamenti diversificati.
Approfondiamo l’argomento con la dottoressa Elena Zannoni, Responsabile di chirurgia conservativa ed endoscopica e specialista di Humanitas Fertility Center.
L’endometriosi è un’infiammazione cronica benigna degli organi genitali femminili e del peritoneo pelvico, causata dalla presenza anomala in questi organi di cellule endometriali che, in condizioni normali, si trovano solo all’interno dell’utero. Nell’endometriosi, quindi, il tessuto endometriale va a posizionarsi in sedi diverse da quella fisiologica.
Le cause dell’endometriosi non sono ancora chiare, sicuramente vengono considerati fattori immunitari, genetici e/o ormonali.
Fattori di rischio riconosciuti sono: il menarca (età della prima mestruazione) precoce e la nulliparità.
È una patologia molto frequente a livello globale e i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riferiscono che possa interessare il 10% circa della popolazione femminile in età fertile. Colpisce infatti prevalentemente tra i 25 e i 35 anni, anche se gli studi più recenti rivelano che la patologia possa essere presente già alcuni anni prima della sua evidenza clinica. In ogni caso, la patologia è praticamente assente nell’età pre-puberale e post-menopausale.
Le linee guida Internazionali raccomandano che la diagnosi di endometriosi venga fatta precocemente, per evitare accertamenti tardivi, che possano peggiorare l’andamento della malattia e la sintomatologia clinica.
La diagnosi è spesso accidentale e avviene durante controlli ginecologici di routine o controlli specialistici eseguiti per altre patologie.
La diagnosi di endometriosi deve essere fatta abbinando un’accurata anamnesi, l’esame obiettivo ginecologico e l’ecografia transvaginale.
In alcuni casi, lo specialista ginecologo può avviare la paziente alla risonanza magnetica o a una laparoscopia diagnostica.
L’endometriosi è una patologia spesso asintomatica. Quando sintomatica, si manifesta generalmente con dolore, che è il primo campanello d’allarme. In particolare:
In presenza di un’intensa sintomatologia dolorosa nei giorni del ciclo (sintomi che, a volte, non si risolvono neppure con antidolorifici e/o antispastici) o di dolore durante i rapporti sessuali, è opportuno fare prontamente riferimento allo specialista.
La gravità e l’estensione della patologia endometriosica è stata classificata in quattro distinte fasi dall’American Society for Reproductive Medicine (ASRM), l’organizzazione dedicata al progresso della scienza e della pratica della medicina riproduttiva.
La classificazione degli stadi si basa sul livello di estensione e gravità dei danni, che condiziona le possibilità di trattamento:
Stadio 1 – Endometriosi minima: l’estensione della patologia è minima e si caratterizza per la presenza di pochi millimetri di tessuto endometriale al di fuori dell’utero, localizzati in posizione superficiale nei tessuti.
Stadio 2 – Endometriosi lieve: è caratterizzata da un maggior numero di lesioni, che risultano anche più profonde.
Stadio 3 – Endometriosi moderata: l’estensione è maggiore. Sono presenti cisti ovariche (endometriomi) mono o bilaterali e tessuto aderenziale e/o cicatriziale tra gli organi pelvici.
Stadio 4 – Endometriosi grave: impianti endometriosici molto profondi e presenza di voluminose cisti su una o entrambe le ovaie. Inoltre esiti cicatriziali e aderenziali importanti.
I sintomi dell’endometriosi, come il dolore e l’infiammazione, possono essere ridotti mantenendo un’alimentazione ricca di cibi anti infiammatori e disintossicanti. Per questo motivo la Fondazione Italiana Endometriosi ha stilato alcune linee guida in merito alla dieta per le persone con endometriosi.
È fondamentale aumentare l’apporto di alimenti ricchi di fibre: cereali integrali, legumi, verdura, frutta fresca (in particolare mele, pere e prugne). Le fibre, infatti, aiutano le funzioni digestive e intestinali e contribuiscono ad abbassare il livello ematico degli estrogeni, aiutando, quindi, a tenere a riposo gli organi e i tessuti estrogeno-dipendenti, tra i quali figura appunto l’endometrio.
Sono poi importanti i cibi ricchi di acidi grassi Omega 3, presenti in particolar modo nel pescato, dal pesce azzurro, al salmone, al tonno fresco, nonché in olio d’oliva, frutta secca e semi, come quelli di girasole, zucca o lino. Gli Omega 3, infatti, contribuiscono ad aumentare la produzione di prostaglandina PGE1, molecola in grado di ridurre i processi infiammatori.
A integrazione della dieta, lo specialista può aggiungere, se lo ritiene opportuno, l’assunzione di specifici integratori, per garantire all’organismo un adeguato apporto di importanti componenti come vitamina D, Omega 6, metilfolato di calcio, partenio, quercetina, curcuma e nicotinamide.
Per curare l’endometriosi si possono adottare diversi trattamenti in base allo stadio e alla sintomatologia della malattia, andando dal semplice controllo clinico, all’utilizzo di terapie farmacologiche, sino al trattamento chirurgico.
Se la patologia è ancora in fase iniziale e la paziente è asintomatica e/o presenta piccoli endometriomi a carico delle ovaie e/o impianti peritoneali non rilevanti, può essere suggerita una condotta di controllo e attesa.
In caso, invece, di una sintomatologia manifesta, con dolore durante il ciclo mestruale, è possibile sottoporsi a una terapia farmacologica, utile anche a limitare il rischio di recidiva in pazienti che hanno già sostenuto la chirurgia. Si tratta di terapie che tengono sotto controllo i sintomi, garantendo un miglioramento della qualità della vita. Abitualmente vengono utilizzati farmaci a base di progesterone o le associazioni estro progestiniche (pillola anticoncezionale). Questi farmaci possono essere utilizzati per un tempo molto lungo ed eliminano la sintomatologia dolorosa.
Terapie mediche più costose e di utilizzo più limitato vengono prescritte al bisogno dallo specialista.
Il ricorso alla chirurgia deve essere valutato sempre molto attentamente e le indicazioni oggi sono quelle di sottoporre a intervento chirurgico solo quei casi in cui non ci sono alternative.
La chirurgia infatti (a maggior ragione quando non eseguita in modo corretto) può portare alla diminuzione del potenziale riproduttivo della donna per una riduzione della sua riserva ovarica. Infatti, durante l’asportazione del tessuto endometriosico, spesso si danneggiano anche i tessuti sani, diminuendo per esempio, il numero degli ovociti presenti nell’ovaio operato o creando alterazioni nella vascolarizzazione d’organo con conseguente diminuzione della sua funzione.
La tecnica chirurgica considerata il gold standard per l’endometriosi è la laparoscopia, che deve essere sempre però eseguita da chirurghi esperti, che abbiano a cuore la salute riproduttiva della donna e che utilizzino modalità chirurgiche corrette (per esempio l’asportazione di una cisti ovarica mediante l’identificazione del suo piano di clivaggio e il successivo stripping, ossia l’asportazione della sola capsula della cisti – nonché l’utilizzazione di tecniche di controllo dell’emostasi, ossia dei sanguinamenti, non troppo pesanti).
In conclusione, l’endometriosi è una patologia tipica dell’età fertile, la cui presenza deve sempre essere sospettata in presenza di una determinata sintomatologia. La diagnosi deve essere il più possibile precoce, per evitare problematiche future, che possono diminuire la qualità della vita della donna e le sue capacità riproduttive.
La gestione della patologia deve sempre essere affidata allo specialista, che deciderà l’iter diagnostico e terapeutico in modo personalizzato.
Ultimo aggiornamento: Marzo 2025
Data online: Gennaio 2021
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L’alopecia areata è un disturbo relativamente comune che può colpire sia maschi che femmine, con una maggiore incidenza nell’infanzia e nell’adolescenza. Si tratta di una patologia autoimmune, in cui il sistema immunitario attacca i follicoli piliferi, causando la perdita di capelli a chiazze. Si tratta di un’alopecia non-cicatriziale che presenta quindi un potenziale di risoluzione totale. In alcuni casi, l’alopecia areata è associata ad altre malattie autoimmuni, come le disfunzioni tiroidee, la dermatite atopica e la vitiligine. Inoltre, la familiarità gioca un ruolo importante, con una predisposizione genetica osservata in diversi pazienti.
Ne parliamo con il dottor Mario Valenti, specialista in Dermatologia presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
L’alopecia areata si manifesta con la caduta improvvisa di capelli a chiazze tondeggianti, spesso con capelli più corti e spezzati ai margini delle zone colpite.
A seconda della gravità e dell’estensione, si distinguono diverse forme:
Oltre alla perdita di capelli, la malattia può coinvolgere anche la barba e le unghie, causando fragilità, irregolarità e alterazioni della superficie ungueale.
Per diagnosticare l’alopecia areata è fondamentale una visita tricologica specialistica. Il dermatologo raccoglie innanzitutto l’anamnesi del paziente, valutando la storia clinica, la familiarità e gli eventuali sintomi associati.
Successivamente, viene eseguito un esame clinico e tricoscopico del cuoio capelluto. La tricoscopia, una tecnica non invasiva e indolore, consente di analizzare i follicoli piliferi in dettaglio grazie a un dermatoscopio, permettendo di valutare l’attività della malattia e monitorare la risposta ai trattamenti nel tempo.
Possono inoltre essere necessari ulteriori test diagnostici, tra cui:
Il trattamento varia in base all’età, all’estensione della patologia e all’attività della malattia. Una diagnosi precoce è cruciale: intervenire tempestivamente aumenta l’efficacia della terapia e riduce il rischio di progressione.
Le opzioni terapeutiche includono:
Per chi desidera migliorare l’aspetto estetico durante il trattamento, esistono soluzioni di camouflage come parrucche, foulard e make-up specifico. L’alopecia areata ha un decorso imprevedibile: in alcuni casi si verifica una remissione spontanea, mentre in altri può essere necessario un trattamento a lungo termine. Indipendentemente dalla forma e dalla gravità, un approccio tempestivo e personalizzato può migliorare significativamente la qualità di vita.
The post Alopecia areata: i sintomi e la cura appeared first on Humanitas.
Il cuore è un organo che pompa l’ossigeno e le sostanze nutrienti contenute nel sangue in tutto il corpo, con una frequenza cardiaca che di solito oscilla tra 60 e 100 battiti al minuto.
Variazioni nella frequenza e/o nel ritmo cardiaco possono essere espressione di aritmie cardiache; in alcuni casi, il battito può essere accelerato (tachicardia), mentre in altri può essere più lento (bradicardia). Si tratta di disturbi comuni, che non sempre rappresentano un pericolo immediato per il soggetto che li avverte, ma che dovrebbero essere indagati con un medico specialista per determinarne la causa e valutare eventuali trattamenti necessari.
Ne parliamo con il dottor Massimo Tritto, responsabile di Elettrofisiologia ed Elettrostimolazione dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
Il cuore è composto da due atri e due ventricoli, e funziona pompando il sangue attraverso il corpo grazie a impulsi elettrici generati periodicamente da cellule specifiche localizzate nell’atrio destro. Questi impulsi si propagano successivamente alle altre camere cardiache permettendo il corretto funzionamento del cuore. Un’alterazione della sede di origine, della frequenza di scarica o della trasmissione degli impulsi all’interno del cuore rappresenta un’aritmia cardiaca.
Le aritmie possono manifestarsi in diversi modi:
Sebbene siano spesso innocue e benigne, le aritmie cardiache possono causare fastidi o preoccupazione in chi le avverte. In altri casi, invece, esse sono il segno (a volte il primo o l’unico) di una patologia cardiaca o extra cardiaca acquisita o congenita, tra cui:
È importante sottolineare che lo stile di vita gioca un ruolo significativo nello sviluppo di aritmie. Stress emotivo, abuso di alcol, fumo, caffeina e l’uso di sostanze eccitanti o stupefacenti possono contribuire al manifestarsi di aritmie cardiache.
I sintomi avvertiti dipendono dal tipo di aritmia.
Possono essere sintomi di bradicardia:
I sintomi riconducibili a tachicardia sono:
Sono invece possibili sintomi di extrasistolia:
La maggior parte delle aritmie non richiede necessariamente un trattamento.
La terapia, quando necessaria, è principalmente focalizzata sulla correzione del disturbo elettrico responsabile dell’aritmia e deve pertanto essere personalizzata in base ai sintomi e al tipo di problema riscontrato. Parallelamente è importante trattare al meglio le malattie cardiache o non cardiache sottostanti.
In alcuni casi di bradiaritmia eccessiva può essere indicata una terapia specifica, come l’impianto di un pacemaker, che è un dispositivo artificiale impiantato sotto la pelle per supportare il ritmo cardiaco.
Nei casi di tachicardia e tachiaritmia, può essere consigliata una terapia farmacologica antiaritmica, una ablazione transcaterete – una procedura eseguita per via percutanea che ha l’obiettivo di “inattivare” il substrato responsabile dell’aritmia – o l’impianto di un defibrillatore cardiaco – un dispositivo in grado di erogare shock elettrici per interrompere aritmie a origine dai ventricoli potenzialmente letali.
Per confermare la presenza di aritmie e individuare eventuali episodi non rilevati durante una visita medica, può essere utile monitorare il battito cardiaco per un periodo continuativo di 24 ore o più tramite un dispositivo chiamato Holter o utilizzando monitor cardiaci esterni (ad esempio gli smartwatch) o impiantabili sottocute (loop recorder).
La visita cardiologica è utile ad escludere, diagnosticare o monitorare un disturbo di carattere cardiologico.
The post Tachicardia e bradicardia: differenze e sintomi appeared first on Humanitas.
Il cerume riveste un ruolo importante per la salute delle orecchie, infatti protegge il canale uditivo dall’ingresso di microorganismi, particelle e polvere, ma anche da irritazioni che possono insorgere con il contatto con l’acqua.
In alcuni casi, però, l’organismo può produrre una quantità di cerume superiore a quanto effettivamente necessario all’orecchio, con lo sviluppo di un tappo, che blocca il canale uditivo. Nella maggior parte dei casi questo tappo non è direttamente collegato all’aumento della produzione di cerume, quanto a tentativi errati di rimuoverlo in autonomia e che, invece di eliminare il cerume, lo spingono più in profondità.
Ne parliamo con la dottoressa Vanessa Rossi, otorinolaringoiatra presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
I principali sintomi che possono far sospettare la presenza di un tappo di cerume sono:
Se non rimosso, il tappo di cerume può contribuire allo sviluppo di un’infezione, se il paziente prova autonomamente a rimuoverlo con metodi errati con l’insorgenza di manifestazioni più severe, tra cui:
Variazioni di colore del cerume, dal giallo chiaro al marrone scuro, non sono invece associate necessariamente alla presenza di un tappo.
In presenza di un tappo di cerume, è importante non cercare di rimuoverlo in autonomia: si rischia infatti di aumentare il disturbo e provocare lesioni o l’insorgenza di infezioni.
Quando si riscontra un aumento di cerume non bisogna mai utilizzare il cotton fioc né i “coni”, ma si può provare ad ammorbidire il tappo con apposite gocce acquistabili in farmacia. Anche sciacquare l’orecchio con acqua tiepida più volte di seguito, può essere utile.
In ogni caso, in presenza di un tappo di cerume o se si sospetta un’infezione all’orecchio è sempre opportuno fare riferimento al medico o allo specialista, che valuterà le condizioni dell’orecchio e in presenza di tappo provvederà a rimuoverlo con una specifica manovra di aspirazione.
The post Tappo di cerume: i sintomi e come toglierlo appeared first on Humanitas.
La cornea è sostanzialmente la membrana trasparente che riveste la parte esterna dell’occhio. Tuttavia, alcune patologie possono lederne la funzionalità: per esaminare la cornea e ottenere diagnosi precise, la tomografia corneale può essere d’aiuto.
Ne parliamo con la dottoressa Costanza Tredici, oculista presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
La cornea svolge la funzione di lente principale dell’occhio. Il potere oculare totale è molto elevato e la cornea ne costituisce la componente più importante. Ciò spiega come mai le alterazioni corneali influenzino in maniera drammatica la qualità visiva.
Si può credere che, come lente, la cornea sia una perfetta sezione di una sfera ma in realtà la sua curvatura cambia nelle varie porzioni (è curva al centro e piatta in periferia); ha una forma che viene definita asferica e che permette di far convergere sul medesimo fuoco tutti i raggi luminosi.
La cornea è costituita da tre strati in successione, epitelio, stroma ed endotelio. L’epitelio, vera pelle dell’occhio, ha un ricambio rapido e può riformarsi completamente in 3-4 giorni grazie alle sue cellule riproduttive (staminali) poste ai bordi esterni della cornea. Lo stroma ha caratteristiche ottiche, devia la luce in base alla sua curvatura ed è trasparente. La trasparenza dello stroma è garantita dalla funzione dell’endotelio e dall’assenza di vasi. Infatti, la cornea trae l’ossigeno dall’aria e il nutrimento da un liquido, l’umore acqueo, che la bagna posteriormente. L’endotelio è un singolo strato di cellule perenni che riveste l’interno della cornea; mantiene la trasparenza corneale esercitando una funzione di pompa che rimuove l’acqua dallo stroma e lo mantiene in uno stato di parziale disidratazione che ne consente la trasparenza.
Sono diverse le malattie che possono colpire la cornea, tra cui:
Queste condizioni possono causare deformazioni o opacizzazioni della cornea, portando a un calo della vista. I sintomi principali includono:
Il topografo corneale sfrutta il fatto che la cornea abbia proprietà specchianti: proiettando cioè una serie di anelli concentrici e fotografando l’immagine ottenuta sulla cornea, costruisce una dettagliata mappa in due dimensioni che, grazie a una scala colorimetrica, fornisce un’accurata descrizione visiva della forma della cornea.
La topografia, assieme alla tomografia corneale, che studia non solo la superficie anteriore ma anche quella posteriore, consente di descrivere nel dettaglio la cornea, conoscerne regolarità e spessori e identificare stadi anche molto iniziali di malattie quali il cheratocono. Il cheratocono è una malattia in cui la cornea si deforma, incurva e assottiglia progressivamente, riducendo drammaticamente la vista e, nei casi più gravi e trascurati, portando alla necessità di un trapianto di cornea.
L’OCT è un esame essenziale per identificare e monitorare diverse patologie della cornea, retina e nervo ottico, come:
L’endotelio corneale viene studiato mediante apposite foto che consentono di verificare forma e numero delle cellule che lo compongono. È un esame fondamentale, ad esempio, prima dell’intervento per cataratta, perché informa sulla vitalità corneale e mette in guardia contro un possibile danno chirurgico permanente e irreversibile.
Una cornea con una conta endoteliale aumenta di spessore, perde la sua trasparenza e ostacola un efficace passaggio della luce. Fortunatamente, oggi esistono tecniche chirurgiche – quali il trapianto lamellare – che permettono di trattare gli scompensi corneali in maniera meno invasiva.
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La dislipidemia è una condizione in cui si verifica un’alterazione nei livelli di grassi presenti nel sangue, come colesterolo e trigliceridi.
Il colesterolo svolge un ruolo fondamentale nella struttura delle membrane cellulari ed è necessario per la sintesi di ormoni e vitamine essenziali. I trigliceridi, d’altra parte, costituiscono una delle principali riserve energetiche del corpo e vengono immagazzinati nelle cellule adipose che compongono il tessuto grasso.
Tuttavia quando i livelli di colesterolo e trigliceridi nel sangue risultano troppo elevati, aumenta significativamente il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari.
Ne parliamo con la dottoressa Tiziana Anita Ammaturo, cardiologa presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
La dislipidemia può avere origini diverse:
In genere, la dislipidemia non presenta sintomi evidenti fino a quando non provoca danni agli organi, come l’accumulo di grassi sulle pareti arteriose che porta alla formazione di placche aterosclerotiche. Questi restringimenti possono bloccare il flusso sanguigno e provocare patologie gravi come aterosclerosi, infarti, ictus o arteriopatie periferiche.
Nei casi di ipercolesterolemie familiari si possono manifestare segni clinici caratteristici, tra cui:
Per diagnosticare una dislipidemia è sufficiente un prelievo di sangue per misurare i livelli di colesterolo totale, LDL, HDL e trigliceridi a digiuno.
Ogni quanto controllare il colesterolo? Le linee guida suggeriscono:
Le linee guida per affrontare la dislipidemia sottolineano l’importanza di intervenire prima di tutto sullo stile di vita, eventualmente integrando una terapia farmacologica quando necessario. Tra i cambiamenti consigliati, l’attività fisica regolare gioca un ruolo cruciale nella gestione di sovrappeso e obesità: almeno 150 minuti a settimana di esercizio aerobico (camminata veloce, corsa, nuoto o ciclismo) aiutano a migliorare il metabolismo lipidico.
Sul fronte alimentare, la prevenzione delle dislipidemie passa attraverso una dieta mediterranea, basata prevalentemente su alimenti di origine vegetale, ricchi di fibre, antiossidanti e grassi salutari. Questa dieta aiuta a mantenere un profilo lipidico equilibrato, riducendo i livelli di colesterolo LDL e di trigliceridi, mentre favorisce l’aumento del colesterolo HDL (“buono”).
È essenziale ridurre il consumo di:
Un’alimentazione equilibrata deve includere:
Oltre alla dieta, smettere di fumare è una delle misure più efficaci per ridurre il rischio cardiovascolare. Il fumo favorisce l’infiammazione dei vasi sanguigni, accelera la formazione di placche aterosclerotiche e aumenta il rischio di infarto e ictus. Dopo pochi mesi dall’abbandono del fumo, i benefici cardiovascolari iniziano a essere evidenti, con un netto miglioramento del profilo lipidico.
Il trattamento delle dislipidemie varia a seconda dei livelli di lipidi nel sangue e delle condizioni generali del paziente e può prevedere l’uso di farmaci o integratori specifici, sempre sotto indicazione medica.
Gli integratori alimentari, noti anche come nutraceutici, sono utili per regolare il metabolismo dei grassi. Tra quelli più comuni si trovano la berberina, i policosanoli, le fibre solubili come i betaglucani, i fitosteroli e il riso rosso fermentato, che deve la sua popolarità alla presenza di monacolina K, una sostanza con effetti ipocolesterolemizzanti.
Nel caso si renda necessario intervenire con i farmaci, vi sono varie opzioni terapeutiche
In casi particolari, quando il paziente ha patologie cardiovascolari e non tollera le statine o in aggiunta alle stesse se non è stato raggiunto il livello di colesterolo ottimale, si può ricorrere all’inclisiran e agli anticorpi monoclonali inibitori del PCSK9 (come alirocumab e evolocumab). Entrambi agiscono bloccando, con modalità differenti, il PCSK9, una proteina che degrada i recettori epatici del colesterolo LDL. Aumentando questi recettori, il fegato rimuove più LDL dal sangue.
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Il prolasso rettale è lo scivolamento della parte finale dell’intestino crasso (il retto) verso l’ano; può essere interno (associato a rettocele e a intussuscezione) o esterno (e cioè protrudente dall’ano). Questa patologia si manifesta con un disturbo che può avere un impatto molto negativo sulla qualità della vita di chi ne viene colpito e spesso può essere associato con prolasso di altri organi della pelvi (utero, vescica) rappresentando un prolasso multicompartimentale del pavimento pelvico.
Grazie a trattamenti, conservativi o chirurgici, in base al livello di gravità del problema misurato come peggioramento della qualità di vita, è però possibile trattare i prolassi migliorando la qualità di vita.
Ne parliamo con il dottor Gabriele Naldini, specialista dell’Unità operativa di Chirurgia del Colon e del Retto, diretta dal Professor Antonino Spinelli.
Il prolasso rettale è un disturbo particolarmente fastidioso perché può comportare o la discesa del retto verso la pelvi, formando un rettocele e/o un prolasso rettale interno, o la fuoriuscita di una porzione di retto dall’ano, in particolare al momento dell’evacuazione.
Altri sintomi del prolasso rettale sono:
Più che da vere e proprie cause il prolasso rettale viene predisposto da una serie di fattori e problematiche, come:
La diagnosi di prolasso rettale viene effettuata dallo specialista di proctologia pavimento pelvico attraverso un’accurata anamnesi, valutazione dei sintomi e esame obiettivo. La diagnosi può avvalersi di alcuni esami, che però non sono diagnostici e non pongono indicazione all’intervento se non direttamente correlabili ai sintomi.
Gli esami diagnostici possono essere:
Una volta valutato il prolasso e altri fattori come l’età e l’eventuale compresenza di altre patologie, lo specialista indica il trattamento più adeguato. Se l’entità del disturbo è limitata, il prolasso può essere contenuto associando delle modifiche all’alimentazione, che deve prevedere un adeguato apporto di fibre, a un aumento dell’idratazione e all’assunzione di integratori per migliorare la consistenza e il transito delle feci. Nel caso in cui ci sia un fallimento della terapia medica e/o riabilitativa o in casi in cui il difetto anatomico sia più importante e la sintomatologia severa, può essere necessario effettuare un intervento chirurgico.
Gli interventi possono essere eseguiti:
per via transanale/transvaginale
per via addominale laparoscopica o robotica
A seconda della presentazione clinica e anatomica le procedure possono essere associate.
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L’alimentazione ha un impatto importante sulla salute generale e mangiare sano gioca un ruolo significativo anche nella prevenzione di alcune patologie, come per esempio l’obesità, il diabete mellito, le malattie cardiovascolari, gastrointestinali, infiammatorie croniche, tumorali.
Cosa significa mangiare sano? “What are healthy diets?” è il titolo di una dichiarazione congiunta dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e della FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) che mira a fare chiarezza su cosa sia una dieta sana e su quali elementi contribuiscano a definirla tale.
Una dieta può essere sana se rispetta i seguenti principi: adeguatezza, equilibrio, moderazione, diversificazione. Ne parliamo con la dottoressa Rosalba Galletti, dietologa presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
Una dieta adeguata è quella che soddisfa, senza eccedere, il fabbisogno di nutrienti specifici per età, sesso, composizione corporea, livelli di attività fisica, stati fisiologici (ad esempio, gravidanza, allattamento) e/o condizioni patologiche.
Nelle diete sane, l’apporto calorico è bilanciato con il fabbisogno energetico che varia con l’età, il sesso, i livelli di attività fisica e durante la gravidanza e l’allattamento. Le diete sane richiedono equilibrio tra le tre fonti primarie di energia: proteine, grassi e carboidrati.
Sebbene alcuni alimenti contengono nutrienti essenziali, in quantità elevate possono portare a effetti negativi sulla salute. Una dieta sana si basa anche sul controllo dei quantitativi di assunzione di alcuni cibi come carne rossa, formaggio, uova.
Un’alimentazione varia, basata su un’ampia varietà di alimenti, all’interno dei vari gruppi alimentari, è associata a una maggiore probabilità di soddisfare il fabbisogno di vitamine e minerali e di altri microelementi.
Oltre alle vitamine, ai minerali e alle fibre, un’alimentazione sana richiede un equilibrio adeguato tra le tre principali fonti di energia: proteine, grassi e carboidrati. I quantitativi assoluti di proteine, grassi e carboidrati nella dieta, dipendono dall’apporto energetico totale e sono quindi espressi come proporzione dell’energia totale assunta.
Le proteine costituiscono i “mattoni” di molte strutture corporee, come i muscoli, oltre a molecole funzionali come ormoni ed enzimi. Per soddisfare le necessità dell’organismo, il 10-15% delle calorie giornaliere dovrebbero provenire dalle proteine, una quantità che può essere leggermente più alta durante l’adolescenza o per gli atleti e in età avanzata.
Un eccesso di proteine può però rappresentare anche un carico metabolico per l’organismo, in particolare per i reni. Le proteine possono provenire da fonti animali e vegetali, considerando la digeribilità e la qualità.
I grassi sono nutrienti essenziali per il corretto funzionamento delle cellule del corpo, e due acidi grassi – l’acido linoleico e l’acido a-linolenico – possono essere ottenuti solo tramite l’alimentazione. La divisione più comune è tra grassi monoinsaturi, polinsaturi e grassi saturi.
I grassi saturi si trovano nel burro, nello strutto, nelle carni e nei formaggi, ma anche in alcuni prodotti vegetali, come la margarina. I grassi insaturi (acidi grassi monoinsaturi nell’olio di oliva, grassi polinsaturi che si trovano negli oli di semi, nella frutta secca).
Negli adulti, circa il 15-30% delle calorie giornaliere dovrebbe provenire dai grassi. Un’elevata assunzione di grassi può portare a un eccesso di energia ingerita; limitare l’apporto al 30% o meno, può aiutare a ridurre il rischio di un aumento di peso e di accumulo di lipidi a livello vascolare. I grassi consumati dovrebbero essere principalmente acidi grassi insaturi.
I carboidrati rappresentano la principale fonte di energia per il corpo. La quantità di carboidrati nella dieta può variare, generalmente rappresentano circa il 45-55% delle calorie giornaliere totali. I carboidrati, dovrebbero essere in maggior percentuale quelli a lento assorbimento, provenienti principalmente da cereali integrali, verdure, frutta e legumi. Gli adulti dovrebbero assumere circa 400 grammi di frutta e verdura al giorno e almeno 25 grammi di fibre alimentari. Per bambini e adolescenti, le quantità sono ridotte in proporzione al fabbisogno energetico per le diverse fasce di età.
Il sodio è un minerale essenziale, ma assumerne troppo può causare l’aumento della pressione arteriosa, un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari. L’assunzione di sodio dovrebbe essere limitata a 2 grammi al giorno negli adulti (equivalenti a 5 grammi di sale da cucina, ovvero cloruro di sodio) e proporzionalmente meno per bambini e adolescenti, in base al consumo energetico. Rispettando questi limiti, si può aiutare l’organismo a mantenere la pressione arteriosa sistolica e diastolica in un intervallo sano, riducendo il rischio di ictus, eventi cardiovascolari e mortalità correlata.
Gli zuccheri a rapido assorbimento non sono nutrienti essenziali e la loro assunzione dovrebbe essere limitata a meno del 10% dell’apporto energetico giornaliero, con meno del 5% associato a benefici aggiuntivi per la salute. La riduzione del consumo di zuccheri liberi dovrebbe avvenire senza ricorrere a dolcificanti non zuccherini, poiché le evidenze suggeriscono che questi ultimi non favoriscono il controllo del peso a lungo termine né riducono il rischio di malattie croniche non trasmissibili correlate alla dieta.
Il consumo di alimenti ultra-processati è associato a esiti negativi per la salute, tra cui sovrappeso, obesità, diabete di tipo 2, dislipidemia, ma anche tumori, malattie gastrointestinali. Sono alimenti caratterizzati da alti livelli di grassi, zuccheri o dolcificanti artificiali, sodio o additivi alimentari, che spesso subiscono processi di lavorazione che modificano la struttura degli ingredienti originali.
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Il corretto funzionamento del sistema cardiovascolare richiede il monitoraggio regolare della pressione arteriosa, che è la pressione del sangue all’interno dei vasi sanguigni. Analogamente, per quanto riguarda la salute degli occhi, è importante valutare anche la pressione oculare, ovvero quella tra il liquido del corpo ciliare e la sua fuoriuscita dall’occhio, che ha la facoltà di tenere la pressione dell’occhio a livelli regolari.
Tuttavia, vi è una differenza significativa: mentre la pressione arteriosa può essere controllata anche a casa, la misurazione della pressione oculare deve essere eseguita esclusivamente dallo specialista oculista.
Approfondiamo l’argomento con la dottoressa Costanza Tredici, oculista presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
La pressione oculare al di fuori dei limiti normali è un segnale da non sottovalutare. La misurazione della pressione intraoculare è chiamata tonometria; valori normali di solito oscillano tra i 12 e i 21 mmHg (millimetri di mercurio).
Un’elevata pressione oculare è spesso associata al glaucoma, una patologia seria che può causare danni cronici e progressivi al nervo ottico. Se non diagnosticato precocemente, il glaucoma può rubare progressivamente la visione periferica e poi la visione centrale, portando infine alla cecità completa.
Per questi motivi, è fondamentale che tutti si sottopongano regolarmente a controlli oculistici e monitoraggio della pressione oculare. In presenza di una storia familiare positiva per glaucoma o di ipermetropia i controlli devono essere precoci e più frequenti.
Ogni anno, soprattutto dopo i 40 anni, è consigliabile prenotare una visita di controllo presso lo specialista oculista per monitorare la pressione oculare e la salute degli occhi nel complesso, al fine di cogliere per tempo eventuali segnali di allarme.
La misurazione della pressione oculare è un esame indolore eseguito durante la visita di controllo in ambulatorio. Esistono diversi metodi per la misurazione della pressione oculare, compresa la tonometria con tonometri a contatto o non a contatto.
Se vengono rilevate anomalie nella pressione oculare, l’oculista può decidere di eseguire ulteriori esami diagnostici ambulatoriali quali la pachimetria corneale, al fine di correlare lo spessore corneale con la pressione oculare; il campo visivo, l’angolo irido-corneale o la tomografia ottica a radiazione coerente (OCT), che consente di studiare la morfologia papillare, lo strato delle fibre nervose peripapillari e lo stato delle cellule ganglionari retiniche, fornendo preziose informazioni sullo stato di salute del nervo ottico.
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Il tumore alla prostata è la neoplasia solida più frequente nella popolazione maschile. Particolarmente frequente in Europa, Stati Uniti d’America, Canada e Australia, ha invece incidenza più bassa in alcune aree del mondo come il Nord Africa e l’Asia. In Italia, i dati della Società di Oncologia Italiana, indicano 38.000 nuove diagnosi di tumore prostatico nel 2022: si parla quindi di numeri piuttosto rilevanti.
L’incidenza del tumore alla prostata è in aumento, ma la ricerca e le prospettive terapeutiche ci indicano risultati positivi.
Ne parliamo con il dottor Massimo Lazzeri, urologo presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
Purtroppo non ci sono comportamenti di carattere individuale o ambientale che si possono mettere in atto per prevenire il tumore alla prostata, come invece accade per altri tipi di tumore, per esempio la neoplasia polmonare. Quando si parla di questo tumore, quindi, è fondamentale la diagnosi precoce. Da questo punto di vista, la Commissione Europea, alla fine del 2022, ha rilasciato una raccomandazione per tutti i paesi membri della Comunità Europea, affinché lo screening alla prostata affiancasse altri screening già in atto, come quello del tumore alla mammella, del colon-retto e della cervice uterina.
A fronte di un aumento dei casi diagnosticati, non si è visto un aumento parallelo della mortalità. Questo dato è molto importante perché indica che l’aggressività della malattia varia da caso a caso, ma soprattutto che le terapie disponibili sono sempre più efficaci.
Il tumore della prostata viene diagnosticato dallo specialista urologo che raccoglie le informazioni sui sintomi riportati dal paziente e indica gli esami diagnostici da eseguire, come l’esame del PSA, un esame del sangue fondamentale per la diagnosi precoce del tumore alla prostata, e la risonanza magnetica nucleare (multiparametrica) una tecnica di diagnostica per immagine estremamente precisa. Inoltre, sono anche già disponibili metodi diagnostici a bassa invasività, come l’ecografia ad alta frequenza o estremamente sofisticati come la PET-TAC con PSMA.
Il trattamento del tumore della prostata si sta invece orientando sempre di più all’individualizzazione e alla personalizzazione. I trattamenti in studio sono sempre meno invasivi, come la terapia focale, una alternativa in casi selezionati alla prostatectomia radicale e alla radioterapia, e sempre più mirati alle specificità della malattia, anche grazie all’impiego dell’Intelligenza Artificiale.
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I linfomi follicolari rappresentano una parte importante della più vasta famiglia dei linfomi. Nello specifico, sono tra i più frequenti linfomi non Hodgkin di tipo B e sono linfomi di tipo indolente, che tendono quindi a una crescita lenta ma con molte recidive durante il decorso. Proprio per trattare queste recidive sono state sviluppate nuove terapie, tra cui quella con CAR-T, una terapia cellulare innovativa che utilizza le cellule del sistema immunitario del paziente stesso.
Ne parliamo con il dottor Daniele Mannina, specialista dell’Unità Operativa di Ematologia dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.
La terapia con CAR-T è un’immunoterapia cellulare che viene applicata nel trattamento clinico dei linfomi follicolari da pochi anni. Questo tipo di terapia usa l’immunità specifica del paziente, quindi i suoi linfociti T, che vengono prelevati e poi inviati in un laboratorio per essere modificati geneticamente. In laboratorio, sulla superficie dei linfociti viene inserito un recettore (CAR) in grado di riconoscere delle proteine presenti sulla superficie del tumore. Una volta terminato il processo, le CAR-T vengono infuse nel paziente e sono in grado di riconoscere specificamente ed eliminare selettivamente le cellule tumorali.
Per accedere al trattamento con CAR-T vengono seguiti criteri definiti dal Ministero della Salute e dall’Agenzia Italiana del Farmaco, che variano a seconda della patologia. Per i linfomi follicolari, le CAR-T possono essere utilizzate quando il tumore è già recidivato più di una volta e, in particolare, in presenza di recidive dopo la seconda linea di trattamento.
Una volta appurata la prescrivibilità della terapia con CAR-T il paziente viene inviato presso un centro specializzato e accreditato per la terapia, come l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano, dove vengono svolte ulteriori valutazioni. In particolare, si valutano età, eventuali comorbidità e terapie in atto e la funzione d’organo degli organi principali (come reni, fegato e cuore): al termine viene confermato se la terapia con CAR-T è tollerabile dal paziente.
Gli effetti collaterali delle terapie con CAR-T riguardano soprattutto l’attivazione infiammatoria delle cellule infuse, che provoca il rilascio massivo di mediatori dell’infiammazione detti citochine. Per questo ci si riferisce a questa complicanza come sindrome da rilascio delle citochine. Il sintomo infiammatorio più frequente è la febbre e in genere per contenere il disturbo si fa ricorso a una terapia antinfiammatoria seguendo uno specifico protocollo di gestione delle tossicità.
Ci sono poi casi in cui l’infiammazione coinvolge anche il sistema nervoso centrale, con lo sviluppo di sintomi neurologici. Anche in questi casi si ricorre a un protocollo di terapia che si serve di diversi farmaci ad azione antinfiammatoria e immunosoppressiva.
La terapia con CAR-T ha significativamente migliorato il trattamento dei linfomi follicolari recidivati refrattari. Prima dell’introduzione delle CAR-T, infatti, questo tipo di tumori risultava non guaribile, con recidive sempre più precoci e aggressive. La terapia con CAR-T, invece, consente di ottenere remissioni di malattia prolungate e stabili anche in pazienti plurirecidivati, puntando in alcuni casi a una potenziale guarigione definitiva. Inoltre è oggi in corso di sperimentazione l’applicazione anticipata delle CAR-T rispetto alle fasi oggi indicate dall’Agenzia del Farmaco, con la prospettiva di una terapia ancora più efficace e con meno effetti collaterali.
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