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“Pac-Man, non puoi scappare”: il romanzo di una paziente di Humanitas
Data articolo:Thu, 21 Nov 2024 09:27:41 +0000

“Pac-Man, non può scappare” è il titolo del romanzo d’esordio di Allegra Bonaccorsi. La storia nasce da un’esperienza realmente vissuta dall’autrice che l’ha portata a una riflessione sui motivi per cui la vita pone talvolta davanti a sfide particolarmente dure, con il desiderio di condividere una possibile chiave di lettura di speranza.

In “Pac-Man, non puoi scappare” la vita di Silvia, la protagonista, viene in breve tempo sconvolta da una serie di avvenimenti dolorosi che investono la sua sfera privata, l’ultimo dei quali è la diagnosi di un tumore al seno. Per qualche oscuro motivo il Destino si sta accanendo contro di lei: i sentimenti di sopraffazione e impotenza che la investono la fanno sentire come perseguitata da un’entità che si diverte a sbarrarle la strada e farla cadere. Un po’ come nel videogioco Pac-Man, con cui si divertiva da ragazzina: Clyde, il fantasma arancione, era considerato “quello tonto” in quanto le sue mosse apparivano casuali e senza uno schema logico, ma in realtà uno schema ce lo avevano, eccome. Era lei a non comprenderle.

Silvia è reduce da un recente divorzio, ha un rapporto conflittuale coi suoi genitori e può contare su una sola persona fidata, la sua amica Marianna. Si sente sola e spaventata ad affrontare qualcosa di troppo grande e spaventoso.

Viene sottoposta a una mastectomia e diverse terapie tra cui la chemio. Alla paura di morire si aggiungono il timore che la sua menomazione distrugga la possibilità di ricostruirsi una vita sentimentale e il dolore per la perdita dei capelli, da sempre importante elemento della sua identità e femminilità. La rabbia per l’ingiustizia da cui si sente travolta la porta a instaurare un dialogo diretto col Destino, ribattezzato Clyde, che nello snodo della trama interviene spesso per chiarire alcuni aspetti della vicenda e dare la sua versione dei fatti.

Con il passare dei mesi, il percorso a cui Silvia viene costretta la porta a comprendere il senso delle prove a cui Clyde l’ha sottoposta: i mesi scanditi dalle sedute chemioterapiche e dal riposo forzato si rivelano una preziosa occasione per guardarsi dentro e intraprendere un cammino di maturazione e autoconsapevolezza fino a quel momento evitato. Impara a guardare con occhi diversi la sua vita precedente, analizza le cause del fallimento del suo matrimonio, si rivolge a uno psicoterapeuta che le fornisce diversi spunti di riflessione sul rapporto da sempre conflittuale coi suoi genitori.

Un giorno di novembre, osservando il suo albero di limone coperto di neve e tuttavia in fiore, incurante delle condizioni esterne avverse, comprende per la prima volta l’immensità del dono della vita e della necessità di viverla senza sprecare nemmeno un secondo. Quell’avvenimento si rivela la chiave per la decisione di sistemare, a terapie concluse, le questioni irrisolte legate al suo passato per ristabilire l’ordine e ricostruire così la sua vita su basi nuove: riprende contatto col suo ex marito, ammettendo per la prima volta le proprie responsabilità per la fine del loro matrimonio, e chiede scusa ai suoi genitori per le incomprensioni che da sempre hanno caratterizzato i loro rapporti.

La serenità e l’autonomia che caratterizzano la sua vita da quel momento in poi coronano la sua trasformazione in una persona totalmente nuova, più indulgente non solo verso gli altri ma anche verso se stessa. Fino a quando il Destino non interviene nuovamente, ma stavolta per aiutarla a ricostruire anche la sua vita sentimentale.

Come nasce il romanzo

“Allegra Bonaccorsi non è il mio vero nome ma uno pseudonimo. La ragione risiede nel fatto che “Pac-Man, non puoi scappare” è in buona parte ispirato a vicende da me realmente vissute e tocca inevitabilmente persone a me vicine in quel periodo.

La molla che mi ha spinta a raccontare la mia esperienza, mettendo a nudo paure, emozioni, speranze, errori, debolezze e sconfitte realmente vissute, è stata la voglia di condividere con chiunque stia affrontando un’esperienza simile alla mia un punto di vista che possa aiutare a sopportarla. Non perché io ritenga di poter salire in cattedra, ma perché da quell’esperienza negativa ho imparato che la chiave per affrontare i problemi e uscirne sta dentro a ognuno di noi.

Non sempre possiamo decidere della nostra vita: il caso (o la sfortuna, che dir si voglia) esiste e, quando se la prende con noi, cercare di contrastarlo è inutile. È meglio lasciare che le cose seguano il loro corso, cercando di prendere ciò che di buono ha da darci ogni esperienza, anche la più dolorosa. Abbiamo tutti la forza per uscirne, ma bisogna crederci, sempre!

Ciò che la malattia mi ha insegnato è di non cedere mai alla disperazione, ma di andare avanti e sospendere il giudizio fino a quando la tempesta non si sarà placata, le nuvole non si saranno diradate e tutto apparirà più chiaro. Potremmo scoprire che ciò che ci è successo ha persino un senso”.

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A cura di cmaddaleni
Pancreas: 21 novembre la Giornata internazionale contro il tumore
Data articolo:Thu, 21 Nov 2024 09:00:39 +0000

Il tumore al pancreas è in crescita in tutti i Paesi industrializzati e lo è anche in Italia. Per fortuna, anche la ricerca sta facendo progressi, piccoli passi in avanti, che per diventare sempre più veloci e mirati hanno bisogno del supporto di tutti.

Ecco perché Fondazione Humanitas per la Ricerca ETS, da sempre in prima fila nella lotta a questo tipo di carcinoma, ha deciso di invitare il 21 novembre, in occasione della Giornata internazionale per la lotta contro il Tumore al Pancreas pazienti, ricercatori, associazioni di malati, donatori e ambasciatori della ricerca per un momento di condivisione e confronto.

L’evento si terrà alle ore 15.00 nel Building 8 dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas in via Manzoni 113, a Rozzano (Mi) e prevede l’intervento di 5 ricercatori, la presentazione di un podcast di Lucilla Giagnoni e l’interramento dei bulbi di tulipani.

Questi fiori non solo simboleggiano la ricerca, che va coltivata e curata costantemente per poter fiorire, ma a primavera, una volta sbocciati, diventeranno un omaggio colorato per i pazienti del day hospital oncologico. I bulbi sono disponibili anche online fondazionehumanitasdonazioni.com/coltivalacura a fronte di una donazione minima di 15 euro.

Durante l’evento verranno presentati i più importanti sviluppi della ricerca condotta in Humanitas, che punta a rendere il tumore del pancreas sempre più curabile. «Questa neoplasia è al 4° posto come mortalità, per questo ogni piccolo progresso è fondamentale – spiega il professor Alessandro Zerbi, responsabile della Chirurgia Pancreatica all’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e docente di Humanitas University. Grazie al sostegno di Fondazione Humanitas per la Ricerca e alla collaborazione tra l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e Politecnico di Milano abbiamo generato un modello artificiale del pancreas, chiamato “phantom”. Questo progetto beneficia anche dell’expertise in bioingegneria e stampa 3D del nuovo 3D Innovation Lab, recentemente istituito presso Humanitas University. Il materiale artificiale che compone il phantom  è molto simile a quello naturale di cui è fatto il pancreas, per questo il phatom è perfetto sia per il training di chirurghi e specializzandi, sia per individuare strumenti sempre più adatti per la chirurgia del pancreas, come colle o fili di sutura resistenti agli acidi pancreatici».

Un altro passo avanti in Humanitas nella ricerca è il progetto che mira alla creazione di organoidi: sono modelli tridimensionali coltivati a partire da cellule tumorali del paziente che preservano l’eterogeneità cellulare, l’architettura e il patrimonio genetico del tumore originale. «Semplificando possiamo dire questi modelli sono repliche in miniatura di tumori umani  –  chiarisce il professor Zerbi. L’uso e lo sviluppo di questi modelli ci permette di studiare la malattia a livello biologico in modo più approfondito, perché ci consentono di riprodurre fedelmente le caratteristiche del tumore in laboratorio, offrendo un modello estremamente realistico per lo studio della biologia tumorale, la scoperta di biomarcatori specifici, lo sviluppo di nuovi farmaci e la personalizzazione delle terapie per ciascun paziente. È un progetto ambizioso che punta a innovare l’approccio alla ricerca oncologica e alla medicina di precisione, offrendo nuove opportunità per migliorare le prognosi e ottimizzare le cure dei pazienti, grazie a una piattaforma sperimentale all’avanguardia che integra tecnologia avanzata e competenze multidisciplinari».

Questo studio, di grande rilevanza e complessità, è iniziato da circa un anno e viene effettuato in collaborazione con i laboratori dell’Anatomia Patologica dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas, Rozzano (Mi) e il Laboratorio di Medicina di Precisione diretto dal professor Salvatore Piscuoglio. A dimostrazione, ancora una volta, di come in Humanitas non solo le cure sono multidisciplinari, ma anche la ricerca segue questo approccio per ottenere risultati sempre più mirati.

Multidisciplinare è anche un altro filone di ricerca che sfrutta l’Intelligenza Artificiale per analizzare e integrare a 360° i dati di radiomica, genomica, trascrittomica e microbiota/metaboloma nell’adenocarcinoma del pancreas. A questo progetto, finanziato anche con i fondi del PNRR, partecipano non solo radiologi, endoscopisti, ricercatori, bioinformatici e oncologi di Humanitas, ma anche ingegneri del Politecnico di Milano e studiosi dell’Ismett di Palermo. Lo scopo della ricerca è caratterizzare nel modo più completo possibile i tumori pancreatici, per riuscire ad avere una descrizione più precisa e puntuale, capire meglio quale possa essere la prognosi e predire, anche grazie a un modello costruito con l’AI, la risposta al trattamento dopo la chemioterapia e/o l’intervento chirurgico.

Fondazione Humanitas per la Ricerca ETS è un ente no-profit, impegnato nello studio e nella cura di malattie come tumori, infarto, ictus, patologie autoimmuni, neurologiche, gastroenterologiche e osteoarticolari. Presidente della Fondazione Humanitas per la Ricerca ETS è il professor Alberto Mantovani, Direttore Scientifico di Humanitas e Professore Emerito di Humanitas University.

La Fondazione contribuisce a formare giovani ricercatori provenienti da tutto il mondo, rendendo il Centro di Ricerca un insieme di culture, conoscenze e saperi di livello internazionale. Fondazione Humanitas per la Ricerca ETS sostiene gli oltre 500 ricercatori provenienti da tutto il mondo che insieme ai medici degli ospedali sono alla continua ricerca di nuove cure. I ricercatori di Humanitas lavorano in rete con centri di eccellenza come la New York University, l’Università di Lovanio, il Centro di Biotecnologie di Madrid, la Queen Mary School of Medicine di Londra e l’Istituto Pasteur di Parigi. Fondazione Humanitas per la Ricerca opera in stretta connessione con i 10 ospedali Humanitas e Humanitas University. https://fondazionehumanitasricerca.it

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A cura di cmaddaleni
Infertilità maschile: i fattori di rischio e la prevenzione
Data articolo:Wed, 20 Nov 2024 11:00:52 +0000

Contrariamente alla fertilità femminile, che è influenzata dall’età anagrafica, gli effetti dell’invecchiamento sulla capacità di concepire nella popolazione maschile sono più sfumati.

Il testosterone, che è coinvolto nello sviluppo degli organi sessuali e dei caratteri sessuali secondari, nonché nella produzione di sperma, viene prodotto in maniera costante dall’organismo. Con l’avanzare dell’età, si verifica una graduale diminuzione dei suoi livelli, ma questo processo non causa l’interruzione completa della produzione di spermatozoi, ma porta a una riduzione graduale della loro quantità e qualità.

Questa diminuzione può essere correlata sia alla diminuzione dei livelli di testosterone sia a una serie di condizioni andrologiche che possono contribuire all’insorgenza dell’infertilità. Ad esempio, alcune infezioni contratte durante l’adolescenza possono influenzare successivamente la fertilità maschile.

Quali sono i fattori di rischio e come si può tutelare la fertilità maschile? Ne parliamo con il dottor Luciano Negri, andrologo del Fertility Center dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

Infertilità maschile: i fattori di rischio 

L’infertilità maschile può essere correlata a una serie di patologie e fattori modificabili che causano dispermia, una condizione in cui il liquido seminale non è adeguato per la fecondazione dell’ovulo femminile a causa di problemi di concentrazione, morfologia e motilità degli spermatozoi. Questa varietà di cause può portare a un’infertilità permanente o temporanea.

I principali fattori di rischio modificabili associati alla dispermia includono:

  • Dipendenza dal fumo di sigaretta o dall’uso di droghe
  • Abuso di alcol 
  • Alimentazione non equilibrata
  • Stile di vita eccessivamente sedentario
  • Eccessiva attività fisica
  • Esposizione a radiazioni, inquinamento e sostanze che possono interferire con la produzione di liquido seminale, come gli idrocarburi e i derivati delle plastiche.

Le patologie alla base dell’infertilità maschile possono essere diverse; la causa più comune è la presenza di infezioni sessualmente trasmesse, come il papilloma virus, la sifilide, la clamidia e la gonorrea. Tuttavia, possono esservi anche:

I sintomi da non sottovalutare

È consigliabile che anche i pazienti maschi senza sintomi evidenti eseguano controlli andrologici o urologici regolari, specialmente a partire dai 40 anni. In giovane età, questi controlli possono contribuire a individuare precocemente eventuali problemi e adottare misure preventive.

Vi sono sintomi che richiedono attenzione immediata, in quanto potrebbero essere associati a infezioni sessualmente trasmesse o, nei casi più gravi, a varicocele.

Per quanto riguarda le infezioni sessualmente trasmesse, i campanelli d’allarme includono dolori pelvici, bruciore o dolore durante la minzione, secrezioni anomale, piaghe sui genitali, nell’area rettale o nell’area orale.

Per quanto riguarda il varicocele, invece, questa condizione si manifesta principalmente con un gonfiore nella zona testicolare. Il testicolo interessato può essere di dimensioni maggiori rispetto all’altro. Prestare attenzione a questi segni può consentire una diagnosi tempestiva e un trattamento appropriato.

Come prevenire l’infertilità maschile?

Ci sono una serie di comportamenti da effettuare per preservare la propria salute e contribuire alla prevenzione dell’infertilità, come ad esempio:

  1. Controllare lo spermiogramma al momento della maggiore età 
  2. Autopalpazione dei testicoli: la corretta autopalpazione mensile dei testicoli può contribuire alla prevenzione del tumore testicolare.
  3. Evitare fumo e sostanze stupefacenti, che possono influenzare negativamente la fertilità.
  4. Ridurre il consumo di alcol: gli alcolici possono influire direttamente sulla funzione del testicolo, riducendo la produzione di testosterone e spermatozoi.
  5. Seguire una dieta sana: il sovrappeso e l’obesità possono causare un calo del testosterone e un’alterazione degli ormoni che regolano la fertilità maschile.
  6. Utilizzare il preservativo, che protegge dalle infezioni sessualmente trasmissibili.
  7. Curare l’igiene genitale, che contribuisce a prevenire le infezioni.
  8. Gestire lo stress: gli ormoni dello stress possono influenzare la produzione di spermatozoi e il livello di testosterone.
  9. Indossare abiti comodi: è consigliabile evitare indumenti troppo stretti che possano aumentare la temperatura locale dei testicoli, compromettendo la produzione di spermatozoi. Gli indumenti intimi in cotone sono preferibili e dovrebbero offrire un adeguato sostegno.

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A cura di cmaddaleni
Ansia sociale: i sintomi del disturbo
Data articolo:Wed, 20 Nov 2024 10:57:58 +0000

Il disturbo d’ansia sociale (SAD), in passato noto come fobia sociale, si manifesta con una paura intensa o ansia in relazione a situazioni sociali dove la persona si sente esposta al giudizio altrui. Chi ne soffre tende a evitare queste circostanze per il timore di essere percepito come goffo, ridicolo, incapace, o di comportarsi in modo inappropriato. 

Il timore di essere umiliati, derisi, o rifiutati può causare un notevole disagio e limitare significativamente le attività quotidiane.

Ne parliamo con il dottor Francesco Cuniberti, medico psichiatra, specialista in disturbi depressivi, d’ansia e di panico, presso Humanitas PsicoCare.

Ansia sociale: che cos’è

È del tutto normale provare paura in alcune situazioni in cui ci si sente esposti al giudizio altrui, temendo di fare una brutta figura o di non essere all’altezza. Tuttavia, questa ansia può trasformarsi in un disturbo quando diventa talmente intensa da generare ansia anticipatoria, evitamento di contesti sociali e rinunce a occasioni importanti.

Queste rinunce possono avere ripercussioni in vari ambiti della vita, come quello sentimentale, dove la persona evita di chiedere a qualcuno di uscire per paura del rifiuto; familiare, non esprimendo bisogni o desideri durante confronti o discussioni; e lavorativo, rinunciando a opportunità di carriera che richiedono interazioni sociali, preferendo lavori da remoto o ruoli che limitano il contatto con altre persone.

Un aspetto problematico del disturbo d’ansia sociale è che spesso chi ne soffre evita di chiedere aiuto, temendo il giudizio anche da parte di medici e specialisti, il che aumenta il rischio che il disturbo diventi cronico.

Esiste anche una forma chiamata “legata solo alle performance” in cui i timori sono circoscritti al parlare o esibirsi in pubblico, mentre in altri contesti la persona non sperimenta particolari difficoltà.

Disturbo d’ansia sociale e timidezza non sono la stessa cosa

La timidezza è spesso definita come la difficoltà a rispondere adeguatamente in contesti sociali. Le persone timide possono trovare complicato incontrare nuove persone, iniziare conversazioni, stringere amicizie o innamorarsi. Sebbene siano consapevoli di queste difficoltà, possono comunque sperimentare reazioni fisiologiche come battito cardiaco accelerato e respirazione affannosa. L’intensità della timidezza varia da persona a persona e tende a diminuire con l’età e l’esperienza di vita.

L’ansia sociale, invece, si manifesta come una risposta cognitiva ed emotiva alla percezione di essere giudicati dagli altri. Questo disturbo può portare a gravi limitazioni e compromettere il benessere quotidiano di chi ne soffre. La timidezza diventa problematica, trasformandosi in disturbo d’ansia sociale, quando raggiunge livelli tali da causare notevole disagio e interferire con il normale funzionamento della persona.

Chi soffre di ansia sociale, rispetto a chi è semplicemente timido, sperimenta livelli di ansia molto più elevati in situazioni in cui si sente valutato, e tende a performare peggio in attività sociali. Questa differenza si riflette in un maggiore grado di sofferenza e in un impatto più significativo sulle capacità quotidiane.

I sintomi dell’ansia sociale

Il disturbo d’ansia sociale può manifestarsi attraverso sintomi somatici, cognitivi e comportamentali:

Sintomi somatici:

Sintomi cognitivi:

  • Autosvalutazione
  • Sovrastima del giudizio altrui
  • Timore costante di essere criticati dagli altri
  • Paura di apparire goffi o ridicoli
  • Paura di comportarsi in modo inadeguato o di arrossire (ereutofobia).

Le persone con un disturbo d’ansia sociale tendono a dare un’importanza esagerata alle proprie manifestazioni d’ansia, credendo che siano evidenti e facilmente percepibili da chi le circonda, e temendo che queste verranno giudicate negativamente.

Le condotte di evitamento, pur essendo una fonte di sollievo temporaneo, amplificano ulteriormente il disagio e compromettono il comportamento, limitando le occasioni di esposizione e interazione sociale.

Sintomi comportamentali:

  • Evitamento di situazioni sociali considerate critiche, di tipo prestazionale (evitare di mangiare in pubblico, parlare, scrivere, usare bagni pubblici, o tentare di fare nuove conoscenze) o relative all’interazione sociale (evitare situazioni come essere presentati a nuove persone, essere al centro dell’attenzione, restituire merce, mantenere il contatto visivo con persone poco conosciute, partecipare a feste, ricevere ospiti, o parlare con estranei)
  • Scarsa partecipazione in contesti sociali.
  • Aumento del consumo di alcol per gestire l’ansia durante le situazioni sociali.
  • Tendenza a mantenere una distanza interpersonale nelle relazioni.

Questi comportamenti possono far apparire le persone che ne soffrono come strane o eccentriche, poiché spesso non rivelano i propri timori. Il livello di sofferenza è strettamente legato all’intensità della risposta di allarme che segue l’esposizione, alla frequenza con cui si verifica questa esposizione, e alla misura in cui vengono adottati comportamenti di evitamento. Spesso, chi soffre di disturbo d’ansia sociale preferisce lavorare da solo.

Come trattare il disturbo d’ansia sociale?

Il disturbo d’ansia sociale viene trattato principalmente attraverso la psicoterapia, in particolare con la terapia cognitivo-comportamentale (CBT). Questo approccio terapeutico utilizza tecniche come la psicoeducazione, l’esposizione graduale e gli esperimenti comportamentali.

Durante gli esperimenti comportamentali, i pazienti sono incoraggiati a evitare le condotte di evitamento e i comportamenti di sicurezza, affrontando direttamente le situazioni temute per mettere alla prova e correggere le convinzioni disfunzionali che alimentano l’ansia.

Recentemente, tecnologie come la realtà virtuale e aumentata sono state integrate nella psicoterapia, permettendo al paziente di affrontare situazioni sociali in un ambiente sicuro e controllato, prima di esporsi nella vita reale.

La terapia farmacologica, quando necessaria, viene prescritta in base alla gravità dei sintomi, dopo un’accurata valutazione psichiatrica. Questo intervento è particolarmente indicato quando i sintomi sono così invalidanti da impedire una vita soddisfacente o da ostacolare il progresso nella psicoterapia.

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A cura di cmaddaleni
Tumore al pancreas: sintomi, trattamenti e ruolo della Ricerca
Data articolo:Tue, 19 Nov 2024 16:11:34 +0000

Parlare di tumore del pancreas, il più delle volte, significa parlare di adenocarcinoma, una forma di tumore che, oltre a essere comune, è anche estremamente aggressiva. Tuttavia, le persone che vengono prese in carico da un Centro specializzato per la cura del tumore al pancreas presentano risultati migliori in termini di trattamento e competenze.

A livello nazionale, la Lombardia è stata la prima Regione a individuare i Centri di riferimento per il trattamento di questo tumore: 14 strutture identificate come Pancreas Unit Hub tra le quali figura anche l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano. Queste strutture sono le uniche a poter erogare a carico del Sistema Sanitario Nazionale gli interventi di resezione di tumore del pancreas.

Di tumore al pancreas parliamo con alcuni specialisti della Pancreas Unit dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano: il professor Alessandro Zerbi, responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia Pancreatica, la dottoressa Silvia Carrara, caposezione dell’Ecoendoscopia e presidente dell’Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas (AISP), la dottoressa Silvia Bozzarelli, oncologa, la dottoressa Sara Lovisa, ricercatrice e Jacopo Sangalli, Case Manager di Humanitas.

I sintomi del tumore del pancreas

La diagnosi del tumore del pancreas è particolarmente complessa: questo tipo di tumore, infatti, si manifesta con segni e sintomi non specifici della patologia.

I sintomi non specifici con cui può presentarsi il tumore del pancreas sono:

Grazie alle nuove tecnologie diagnostiche a disposizione, si è assistito però a importanti progressi nella conoscenza, nella diagnosi e nel trattamento di questo tipo di tumore. 

La Ricerca svolge un ruolo molto importante; come spiega la ricercatrice Sara Lovisa, per esempio, ricostruire l’architettura del tessuto pancreatico, con tutte le sue componenti cellulari, sta permettendo ai ricercatori di studiare in modo più approfondito i meccanismi di sviluppo del tumore.

Le cause del tumore del pancreas

I casi di tumore del pancreas risultano in continuo aumento: fumo, obesità, scorretta alimentazione, diabete e pancreatite cronica, sono fra le principali cause all’origine di questa malattia. Un altro fattore di rischio per lo sviluppo di tumore del pancreas è la predisposizione genetica. Come aggiunge la dottoressa Silvia Carrara, alcune categorie di persone presentano un aumentato rischio di tumore del pancreas perché nella loro famiglia sono presenti più casi di questa neoplasia o perché sono portatrici di mutazioni coinvolte nello sviluppo del tumore. Humanitas è coinvolta da diversi anni nella sorveglianza di queste persone ed è il Centro Italiano con il maggior numero di persone arruolate nel registro italiano promosso da AISP.

Tumore del pancreas: quali sono i trattamenti

Il tumore del pancreas viene trattato da un team multidisciplinare di specialisti, in maniera integrata e personalizzata sulle esigenze cliniche del paziente.

Il tumore del pancreas può essere asportato chirurgicamente, ma è un trattamento che può essere eseguito solo sul 20-30% dei pazienti e che non è comunque sufficiente a controllare e contenere del tutto la patologia. Per questo è fondamentale il ricorso a terapie farmacologiche, come chemioterapia e radioterapia.

Il trattamento del tumore del pancreas è così complesso, approfondisce il professor Alessandro Zerbi, a causa di un insieme di fattori:

  • la diagnosi, che in genere avviene quando il tumore è già a uno stato avanzato
  • la sede, più complicata da raggiungere rispetto ad altri organi
  • la prossimità di arterie e vene importanti
  • la necessità di associare trattamenti diversi (come chirurgia, radioterapia e chemioterapia) per ottenere una risposta adeguata.

La discussione dei casi in team multidisciplinare permette di condividere il percorso migliore per ogni singolo paziente tenendo conto anche delle caratteristiche individuali. Inoltre grazie al miglioramento e alla sempre maggiore integrazione delle terapie di supporto, i trattamenti chemioterapici vengono sempre meglio tollerati dai pazienti con conseguente minor impatto sulla qualità di vita, aggiunge la dottoressa Silvia Bozzarelli.

Humanitas tra i centri di riferimento per il tumore del pancreas

Humanitas fa parte della rete di centri di riferimento per la diagnosi e la cura del tumore del pancreas. La Pancreas Unit dell’Humanitas Cancer Center, infatti, consente la presa in carico multidisciplinare delle persone con tumore del pancreas e patologie pancreatiche benigne, grazie a un team composto da chirurghi, oncologi, gastroenterologi, radioterapisti, radiologi, endocrinologi, patologi e infermieri specializzati. La Pancreas Unit conduce inoltre una serie di studi clinici e studi di base con la partecipazione di Fondazione Humanitas per la Ricerca.

L’attenzione alle esigenze del paziente e a quelle della sua famiglia che si possono trovare in un centro di riferimento, come spiega Jacopo Sangalli, possono rappresentare un importante valore aggiunto.

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A cura di cmaddaleni
Virus intestinale: quali sono i sintomi della gastroenterite
Data articolo:Tue, 19 Nov 2024 15:43:04 +0000

Mal di pancia, nausea, dissenteria: sono i sintomi tipici della gastroenterite, un disturbo molto frequente di origine virale o batterica, comunemente chiamato virus intestinale o influenza intestinale. La gastroenterite può interessare persone di ogni età, ma colpisce molto spesso i bambini, più facilmente soggetti alle infezioni che si trasmettono per via orale e attraverso le mani contaminate. I virus che causano più comunemente la gastroenterite sono norovirus, rotavirus, astrovirus e adenovirus enterici, mentre tra i batteri si annoverano salmonella, shigella, clostridium difficile e campylobacter. 

Quali sono i sintomi della gastroenterite? E cosa mangiare in caso di virus intestinale? Ne parliamo con il dottor Antonio Capogreco, gastroenterologo presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano. 

Virus intestinale: i sintomi 

La gastroenterite si manifesta con sintomi a carico dell’apparato gastrointestinale molto comuni. Tra questi troviamo:

Cosa mangiare con il virus intestinale? 

Il primo passo, in presenza di gastroenterite, è mantenersi idratati: bevendo molta acqua, ovviamente, ma può essere utile anche l’assunzione di brodo, tè, tisane e centrifugati. La diarrea e, se il disturbo è particolarmente severo, il vomito, contribuiscono infatti a disidratare l’organismo e per questo motivo è fondamentale reintrodurre i liquidi e i sali minerali persi. In caso di vomito, è indicata l’assunzione dei liquidi a piccoli sorsi.

Gli alimenti consigliati per la gastroenterite sono quelli maggiormente digeribili, come riso, carne bianca, pesce, pane. Tra la verdura e la frutta sono consigliate patate, carote, mele, pere e banane.

Tra le bevande da evitare, invece, figurano quelle più irritanti, come quelle contenenti caffeina, che inoltre può aumentare la motilità intestinale, e gli alcolici.

Nei giorni in cui si soffre di gastroenterite è bene anche eliminare dalla propria alimentazione i latticini e il latte, che favoriscono episodi di diarrea, i cereali integrali e gli alimenti di digestione più complessa, come le carni rosse, i cibi grassi, i condimenti, le salse e le spezie.
Verdura, soprattutto a foglia larga, e frutta crude vanno inoltre considerevolmente limitate. 

Virus intestinale: quanto dura e cosa prendere 

Il trattamento della gastroenterite prevede l’utilizzo di farmaci antiemetici, volti a contenere il vomito. Utili, poi, a contenere la diarrea e a ristabilire il corretto equilibrio della flora intestinale anche gli integratori con probiotici. Gli antidiarroici sono spesso sconsigliati in caso di gastroenterite virale o batterica in quanto possono peggiorare la sintomatologia, per cui prima di assumerli è consigliabile rivolgersi al medico.

I sintomi della gastroenterite si risolvono abitualmente in pochi giorni, per questo se dovessero persistere oltre una settimana, in associazione a febbre, è opportuno chiedere consiglio al medico. Qualora, infatti, la gastroenterite sia di origine batterica, è necessario effettuare un trattamento antibiotico.

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A cura di cmaddaleni
Mano: cosa fare in caso di frattura alle dita
Data articolo:Tue, 19 Nov 2024 15:40:07 +0000

Skateboard, pattinaggio, boxe, pallavolo: le lesioni alle dita delle mani sono frequenti in coloro che praticano sport, sia a livello agonistico sia amatoriale, risultato sia di traumi diretti che di distorsioni o compressioni.

La natura della lesione, la sua posizione e l’età del paziente determinano il trattamento più adeguato. Per diagnosticare una frattura occorre effettuare una radiografia: un dito fratturato potrebbe non fare troppo male e conservare una certa mobilità, pertanto la possibilità di movimento non esclude la frattura.

Ne parliamo con la dottoressa Laura Frontero, chirurgo della mano presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano, Humanitas Castelli (Bergamo) e Humanitas San Pio X, Humanitas Cellini (Torino) e i centri medici Humanitas Medical Care

Frattura alla mano: i sintomi da non sottovalutare

Dopo aver subito un trauma è consigliabile applicare ghiaccio e limitare l’uso della mano per alcuni giorni perché potrebbe trattarsi di un semplice trauma contusivo. Qualora il dolore e il gonfiore dovessero persistere è invece importante consultare uno specialista ed eseguire una radiografia per escludere un’eventuale frattura. Non sempre infatti una mano che si muove normalmente e che fa solo un po’ male non è rotta.

Come si fa la diagnosi di frattura?

Per diagnosticare una frattura è necessario eseguire una radiografia mirata, talvolta in più proiezioni, comprese proiezioni specifiche per l’osso che si sospetta si possa essere rotto. In alcuni casi la radiografia può non essere sufficiente a fare diagnosi di frattura e sarà necessario richiedere una TAC che permetterà di essere certi della diagnosi e anche di poter studiare meglio la frattura e i vari segmenti ossei.

Come trattare una frattura? 

Il trattamento varia molto in base al tipo di frattura e alla sua sede.

Fratture composte che non coinvolgono superfici articolari possono essere trattate con immobilizzazione. Una volta si usava il classico gesso, oggi sono disponibili tutori confezionati su misura da terapisti della mano che hanno la stessa funzione del gesso e che quindi non devono essere mai tolti per il tempo necessario.

In caso di fratture più complesse, che coinvolgono più ossa o una superficie articolare o dove i segmenti di frattura sono scomposti, sarà necessario intervenire chirurgicamente.

Anche in questo caso il tipo di intervento cambia in base al tipo di frattura: alcuni tipi di fratture potranno essere trattate con un intervento che, utilizzando il macchinario per le radiografie in sala operatoria, permetta di bloccare i segmenti fratturati con dei chiodini senza nessun taglio. Questi chiodini andranno poi rimossi in ambulatorio una volta che l’osso si sarà saldato.

Fratture più complesse richiederanno invece il posizionamento di placche e viti attraverso incisioni cutanee, dopo aver stabilizzato la frattura. Queste placche e viti non devono essere rimosse a distanza di tempo a meno che non diano qualche tipo di fastidio al paziente.

Parte integrante del trattamento, sia chirurgico che conservativo, è la fisioterapia post operatoria. Il recupero di un buon movimento non può prescindere da un lungo percorso di fisioterapia da seguire con professionisti specializzati.

I rischi delle fratture non trattate

Purtroppo le fratture non riconosciute e non trattate in tempo possono portare a quadri di importante rigidità dove trattamenti secondari non garantiscono degli ottimali risultati.

Pertanto, quando si sospetta una frattura, è bene eseguire subito una radiografia e contattare un esperto per verificare la situazione.

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A cura di cmaddaleni
Proteine: cosa sono e a cosa servono
Data articolo:Tue, 19 Nov 2024 14:46:08 +0000

Le proteine sono molecole fondamentali per il nostro organismo: contribuiscono al rinnovamento dei tessuti, sono adibite al trasporto dei nutrienti e hanno un ruolo importante nel metabolismo cellulare. 

Ma cosa sono le proteine e quanto proteine assumere al giorno? Ne parliamo con la dottoressa Michela Seniga, nutrizionista presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano e i centri medici Humanitas Medical Care.

Cosa sono le proteine

Le proteine sono molecole complesse composte da 20 aminoacidi, di cui otto (fenilalanina, leucina, isoleucina, lisina, valina, metionina, triptofano, treonina) sono definiti essenziali perché il corpo umano non è in grado di produrli autonomamente e devono quindi essere ottenuti tramite l’alimentazione (nel fanciullo in crescita aumentano a 9 con l’aggiunta dell’isitidina). 

Le proteine rientrano nel gruppo dei macronutrienti fondamentali per il corretto funzionamento dell’organismo, insieme ai carboidrati e ai grassi. Una caratteristica distintiva delle proteine rispetto agli altri macronutrienti è la loro composizione di azoto, elemento che per via del suo metabolismo fisiologico necessità una maggior attenzione nell’assunzione, tale da definire con maggior rigore i quantitativi giornalieri fruibili dall’alimentazione per mantenere un corretto stato di salute. 

L’azoto introdotto attraverso l’alimentazione viene eliminato principalmente tramite urine, sudore e feci. Per mantenere un bilancio azotato stabile e garantire il corretto funzionamento dell’organismo, è necessario reintegrarlo con un adeguato apporto di proteine alimentari.

A cosa servono le proteine

Le proteine sono fondamentali per il nostro corpo perché svolgono numerose funzioni vitali. Di seguito un breve accenno e dettaglio: hanno principalmente una funzione strutturale, costituiscono i bioelementi fondamentali di organi, tessuti. Sono le protagoniste di tutte le reazioni metaboliche, avendo così il titolo di catalizzatori biologici (funzione catalitica).

Sono molto spesso strutture che veicolano il passaggio di molecole essenziali (funzione di trasporto) ma anche di segnali biologici più complessi basti pensare agli ormoni (questi ultimi sono oltre che lipidici anche di una componente proteica, intervenendo nella regolazione fisiologica di alcuni processi organici).

Gli stessi anticorpi del sistema immunitario sono complessi proteici che hanno il compito di riconoscere l’agente patogeno e indurre una risposta di difesa.

Innegabile è la funzione energetica, essendo una delle tre macroclassi di nutrienti garantisce un apporto calorico pari a  4 chilocalorie per grammo. 

La qualità delle proteine dipende dalla loro composizione in aminoacidi essenziali e dalla loro biodisponibilità, ossia la capacità del corpo di digerire e assorbire gli aminoacidi. Le proteine di origine animale hanno una biodisponibilità maggiore rispetto a quelle vegetali, in quanto contengono tutti gli aminoacidi essenziali e vengono assorbite in quantità maggiore. 

Cibi con proteine: quali sono

Le proteine si trovano sia negli alimenti di origine animale che in quelli di origine vegetale, ma con alcune differenze in termini di qualità e biodisponibilità. 

Le proteine di origine animale, chiamate anche proteine nobili perché contengono tutti gli aminoacidi essenziali, sono presenti in carne, pesce, uova, latte e derivati. 

La carne può essere rossa (bovina, suina, caprina, equina) o bianca (pollo, tacchino, coniglio), con un impatto sulla salute diverso a seconda del tipo: le carni rosse, in particolare quelle trasformate, sono associate a un rischio maggiore di malattie croniche, quali tumori del colon retto o stomaco, e dipendenti dal profilo ormonale come seno, endometrio e pancreas; ovviamente è una possibilità più estesa principalmente nei soggetti con familiarità.

I prodotti ittici, come pesce, molluschi e crostacei, sono ricchi di grassi ma di tipologia antinfiammatoria comunemente nota come omega-3

Anche le uova e i latticini (latte, yogurt e formaggi) sono ottime fonti di proteine animali da alternare più frequentemente rispetto a quelle descritte pocanzi. 

Le proteine vegetali, invece, si trovano nei cereali, legumi, frutta secca e nelle alghe. I cereali (compresi gli pseudocereali come quinoa, amaranto e grano saraceno) forniscono proteine di buona qualità, mentre i legumi come fagioli, lenticchie, ceci e soia sono particolarmente ricchi di proteine. La frutta secca oleosa (noci, mandorle, pistacchi, ecc.) è un’altra fonte proteica vegetale, così come le alghe, utilizzate soprattutto nella dieta orientale. 

Perché il profilo nutrizionale in termini di proteine possa essere equiparato a quello di una carne o di un prodotto animale è necessario che le proteine di tipo vegetale vengano associate a cereali, così da completare il profilo aminoacidico e garantire una maggior copertura di tutti i fabbisogni dell’organismo.

Quante proteine assumere al giorno

La quantità giornaliera di proteine che bisogna assumere varia a seconda dell’età e dello stato fisiologico della persona. Secondo la Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU), le persone adulte, compresi gli anziani, dovrebbero consumare circa 0.80-0,90 grammi di proteine per ogni chilo di peso corporeo al giorno. I bambini e gli adolescenti necessitano di un quantitativo leggermente superiore, variabile tra 0,90 e 1,32 grammi per chilo di peso corporeo al giorno, a seconda della fase di crescita in cui si trovano. 

In situazioni particolari come la gravidanza, è necessario aumentare l’apporto proteico: durante il primo trimestre si consiglia di aggiungere 1 grammo di proteine al giorno, mentre nel secondo e terzo trimestre si raccomandano, rispettivamente, 8 grammi e 26 grammi aggiuntivi al giorno. In allattamento, invece, bisognerebbe incrementare l’assunzione di proteine di 21 grammi nei primi sei mesi di allattamento e di 14 grammi al giorno nel periodo successivo.

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A cura di cmaddaleni
Tecnologie al servizio della Ricerca per cambiare la storia delle patologie cardiologiche, neurologiche e oncologiche
Data articolo:Tue, 19 Nov 2024 14:39:06 +0000

In Humanitas arrivano due nuove tecnologie di Imaging radiologico in grado di raggiungere una risoluzione anatomica senza precedenti, riducendo l’intensità dell’esposizione e la durata della seduta. Si tratta di una TAC a conteggio di fotoni, in grado di tradurre direttamente in segnale elettrico l’energia dei singoli fotoni che raggiungono il rivelatore dopo aver interagito con i tessuti, e di una Risonanza Magnetica a 3 Tesla di ultima generazione, che grazie alla sua capacità di generare variazioni di campo magnetico particolarmente intense, raggiunge sensibilità e precisione quasi equivalenti a quelli di una 7 Tesla.

Entrambe le strumentazioni segnano un progresso da record: se la prima macchina è la terza di questo tipo a essere installata in Italia, la Risonanza Magnetica è un primato assoluto negli ospedali Italiani, con poche altre installazioni in corso nel mondo.

Acquistate da Humanitas University grazie ai fondi del Progetto Anthem – finanziato con il Piano Nazionale Complementare al PNRR dal Ministero dell’Università e della Ricerca – le due macchine saranno interamente dedicate ai progetti di Ricerca clinica di frontiera promossi da Anthem.

Fondazione Anthem

Acronimo di AdvaNced Tecnology for Human-centerEd Medicine, Anthem raduna 23 tra enti accademici e di Ricerca pubblici e privati e aziende del settore tecnologico, con una missione chiara: offrire nuove soluzioni diagnostiche e terapeutiche basate su innovazione e tecnologia ai tanti pazienti affetti da condizioni croniche in Italia, in aree cliniche che vanno dalle malattie neurologiche a quelle cardiovascolari e polmonari, ai tumori orfani di trattamento.

“Siamo orgogliosi di collaborare con una realtà d’eccellenza come Humanitas University, non solo per l’eccellenza scientifica che la contraddistingue, a partire proprio dalle aree di Imaging, ma anche per capacità di rendere operative queste tecnologie in tempi davvero sfidanti – afferma Stefano Paleari, Presidente di Fondazione Anthem e professore ordinario dell’Università degli Studi di Bergamo -. Progetti come quello di Anthem dimostrano una volta di più il circolo virtuoso che nasce dalla collaborazione tra pubblico e privato. Il nostro Paese ha eccellenze di ricerca ben distribuite; unite su temi di frontiera possono fare la differenza a beneficio della qualità del servizio sanitario offerto ai cittadini”

Humanitas e Anthem per la Ricerca clinica di frontiera

“Grazie al Progetto Anthem, nei prossimi anni condurremo studi volti a rivoluzionare le nostre capacità diagnostiche e predittive, ottimizzando i protocolli attualmente in uso. Il futuro è rappresentato da una medicina di precisione che ha come obiettivo primario la diagnosi precoce e l’identificazione dei soggetti a rischio di eventi avversi, prima dell’emergere di una patologia conclamata. Questo approccio consentirà di prevedere esiti clinici sfavorevoli e di intervenire tempestivamente con terapie mirate, valutando con un livello di precisione mai raggiunto prima l’efficacia dei farmaci somministrati nei trial clinici” affermano il prof. Marco Francone e il prof. Letterio Politi, docenti di Humanitas University e responsabili rispettivamente dell’Imaging Cardiologico e dell’Imaging Neurologico dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas.

In particolare, queste tecnologie consentiranno di condurre studi avanzati in ambito cardiologico, focalizzati sulle caratteristiche strutturali delle placche aterosclerotiche responsabili di eventi avversi come l’infarto e la morte cardiaca improvvisa. In ambito pneumologico, l’obiettivo è uno studio approfondito dell’interstizio polmonare in diverse patologie mentre in ambito neurologico, il focus sarà su neoplasie cerebrali primitive e malattie cerebro-vascolari. Lo studio del cervello in particolare – dal punto di vista della microstruttura delle connessioni, delle connessioni funzionali e della presenza di microlesioni – accelererà la ricerca sulle malattie neurologiche e neurodegenerative. Allo stesso modo, i macchinari renderanno possibile migliorare l’Imaging legato alla diagnosi e stadiazione delle patologie oncologiche, all’interno dei percorsi di Humanitas Cancer Center, polo specialistico per la cura, la ricerca e lo sviluppo di nuove terapie nell’ambito delle patologie oncologiche ed emato-oncologiche. Il Centro accoglie oltre 30mila pazienti, con 7000 nuovi pazienti trattati ogni anno.

“La Ricerca clinica condotta da Humanitas University e da IRCCS Istituto Clinico Humanitas è da sempre una Ricerca ad alto contenuto tecnologico, che non dimentica mai però di mettere al centro il paziente, come persona nella sua interezza, che affronta un delicato percorso di cura. Da questo punto di vista la missione scientifica di Fondazione Anthem è in totale sintonia con la nostra visione del futuro della medicina: scientificamente e tecnologicamente avanzata, ma soprattutto umana”, afferma il prof. Maurizio Cecconi – Vice Direttore Scientifico per la Ricerca Clinica e responsabile del Dipartimento Anestesia e Terapie Intensive di IRCCS Istituto Clinico Humanitas – coinvolto attivamente nel progetto Anthem per lo studio di nuovi approcci di monitoraggio dei pazienti in terapia intensiva.

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Elizaveta Kon nominata Professore Ordinario Malattie dell’apparato locomotore di Humanitas University, prima donna in Italia
Data articolo:Wed, 13 Nov 2024 11:47:50 +0000

È la prima donna a diventare Professore ordinario in Malattie dell’apparato locomotore in Italia. Si tratta di un passo avanti importante per una specializzazione dove le donne sono solo il 7-9 percento e anche a livello mondiale la percentuale rimane la medesima. 

Il percorso di Elizaveta Kon è iniziato negli anni Novanta; infatti, è stata una dei primi tre studenti a partire dall’Ex-URSS per studiare in Italia, due di loro hanno studiato all’Università di Roma e lei a Bologna. Dopo la laurea e la specializzazione in ortopedia continua a lavorare nello stesso Ateneo e all’Istituto Ortopedico Rizzoli fino al 2017, quando viene chiamata, insieme al Professor Alessandro Castagna e al Professore Maurilio Marcacci, per creare la Cattedra di Ortopedia e traumatologia di Humanitas University a Rozzano e dove viene nominata professore Associato. Entrare in una Università giovane, fondata nel 2014, è una sfida interessante e offre la possibilità di costruire percorsi innovativi e fare ricerca nell’ambito della medicina rigenerativa e della stampa 3D per la realizzazione di protesi personalizzate. Da qui il percorso continua e si sviluppa fino alla recente nomina a Professore ordinario.

«È una bella soddisfazione essere la prima donna ad essere nominata Professore ordinario, anche se devo dire che, in generale, ci è voluto un po’ troppo tempo per una donna arrivare alla cattedra di Ortopedia e Traumatologia, ma bisogna anche dire che l’ortopedia è sempre stata e continua ad essere un ambito maschile – spiega Elizaveta Kon, anche responsabile della sezione di Ortopedia Rigenerativa del Centro per la ricostruzione articolare e biologica del ginocchio, Humanitas Research Hospital –. A dirlo sono i numeri: la specialità ortopedica ha la più bassa percentuale di medici specializzandi donne, solo il 15,4 percento, in aumento negli ultimi 10 anni del 27,3 percento, ma ancora troppo bassa. Nella mia vita mi è capitato in più occasioni da fare da “apripista” e questo comporta un impegno e una responsabilità». 

Sin dall’inizio la passione per la ricerca l’ha portata a impegnarsi, in particolare, nel campo della medicina rigenerativa oltre che nella pratica clinica e chirurgica, è stata responsabile fino al 2017 del Laboratorio di Nano Biotecnologie del Dipartimento RIT (Research, Innovation and Technology) dell’Istituto Rizzoli. Negli stessi anni Ricercatore di Malattie Apparato Locomotore dell’Università di Bologna.

Nel biennio 2022-2023 è stata Presidente di ICRS, International Cartilage Regeneration & Joint preservation society, la principale associazione internazionale nella ricerca sui tessuti cartilaginei e sulla preservazione delle articolazioni. Attualmente ricopre la carica di Presidente di SIAGASCOT (Società Italiana Artroscopia, Ginocchio, Arto superiore, Sport. Cartilagine e Tecnologie Ortopediche) e anche in questa occasione è la prima donna a guidare la più importante Società scientifica specialistica di Ortopedia in Italia. 

«In Humanitas University cura, ricerca e insegnamento vanno di pari passo – informa la professoressa Kon –. I medici specializzandi attualmente sono 35 dei quali 6 donne. La Scuola di specialità è molto ambita, infatti, ci collochiamo entro i primi tre nella classifica delle Scuole di ortopedia in Italia. Per la ricerca oltre che in ortopedia e medicina rigenerativa collaboriamo molto anche con il Corso MEDTEC di Hunimed in diversi ambiti. Il nostro dipartimento ha creato Master in Medicina rigenerativa in ortopedia e da quest’anno diventa il primo master internazionale in collaborazione con l’Università di Krems in Austria. – E conclude – I progetti di ricerca e non a cui stiamo lavorando sono numerosi e uno di questi è certamente rendere meno maschile l’ortopedia”.

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A cura di cmaddaleni
Lo zucchero, i dolcificanti e gli zuccheri aggiunti
Data articolo:Tue, 12 Nov 2024 09:52:05 +0000

Gli zuccheri sono composti che il nostro organismo assorbe rapidamente e che servono per vari processi fondamentali per la salute. Come sappiamo, oltre agli zuccheri naturalmente presenti negli alimenti, possiamo aggiungere alle nostre ricette lo zucchero da tavola, per esempio quando cuciniamo un dolce, o trovarne di addizionati nei cibi trasformati che compriamo, magari indicati nella tabella degli ingredienti con nomi che non riconosciamo immediatamente. È molto importante prestare attenzione agli zuccheri aggiunti che consumiamo perché assumerne in eccesso può aumentare il rischio di insorgenza di patologie cardiovascolari, obesità e diabete di tipo 2.

Quali sono i tipi di zuccheri che è possibile trovare negli alimenti in commercio? E quali sostituti possiamo utilizzare per ridurne l’apporto? Quali sono i loro benefici? Ne parliamo con la dottoressa Martina Francia, nutrizionista presso l’IRCCS Istituto clinico Humanitas e i centri medici Humanitas Medical Care.

Zucchero: perché limitarne l’assunzione

Lo zucchero è una sostanza che può creare dipendenza e il cui consumo aumenta infatti spesso in correlazione a un abbassamento del tono dell’umore. Sia in momenti di tristezza momentanea e non patologica, sia in presenza di problemi più severi come una depressione, è possibile sentire una maggiore necessità di consumare alimenti dolci. Lo zucchero, però, una volta assunto viene assorbito molto velocemente, entrando così nel circolo sanguigno con un aumento delle concentrazioni di glicemia nel sangue e lo stimolo per l’organismo di produrre più insulina. Se, dunque, il consumo di zuccheri risulta eccessivo, questo può comportare un maggior rischio di sviluppare diabete di tipo 2, ma anche, come abbiamo detto, obesità e problemi cardiocircolatori.

Di solito, il consumo eccessivo di zuccheri non si correla a quelli naturalmente presenti nei singoli alimenti, né all’utilizzo dello zucchero da tavola nei dolci preparati in casa o in aggiunta a bevande come tè e caffè, bensì all’assunzione di grandi quantità di alimenti lavorati che presentano zuccheri aggiunti. Parliamo di merendine confezionate e succhi di frutta, salse, yogurt o prodotti come gli hamburger.

Zuccheri aggiunti: cosa sono

Con zuccheri aggiunti si considera una combinazione di zuccheri semplici (per esempio glucosio, saccarosio o fruttosio) addizionata nei cibi industriali con vari scopi che vanno dal migliorare consistenza e sapore del prodotto ad allungarne i tempi di conservazione. Il problema, però, è che spesso gli zuccheri aggiunti non vengono considerati al momento dell’acquisto e si rischia di assurmene una quantità superiore a quanto l’organismo non abbia effettivamente bisogno.

Un consiglio per limitare l’assunzione di zuccheri aggiunti è imparare a leggere e comprendere le liste di ingredienti e le tabelle con i valori nutrizionali presenti sulle etichette dei prodotti che si comprano e orientare l’acquisto su prodotti industriali che contengano zuccheri in concentrazioni minori o ne siano addirittura privi. Vediamo quali sono i più comuni zuccheri che vengono addizionati agli alimenti e quali sono le loro caratteristiche.

Glucosio, fruttosio e saccarosio: gli zuccheri più comuni

Glucosio e fruttosio sono i più comuni zuccheri semplici. Il glucosio la fonte di energia principale del nostro corpo e l’unica per cervello e sistema nervoso: è quindi particolarmente importante che si mantenga sempre a livelli adeguati nel sangue e per questo viene controllata a cadenza regolare tramite gli esami del sangue. Il fruttosio, invece, viene spesso usato al posto del glucosio perché conferisce agli alimenti un sapore ugualmente dolce ma con un indice glicemico più basso. Viene metabolizzato principalmente dal fegato ed è presente nella verdura, nella frutta, in alcuni tuberi e nel miele. Quando è presente naturalmente nei cibi, è legato a fibre alimentari e per questo assorbito con maggiore lentezza, mentre se è usato come zucchero aggiunto è presente nell’alimento slegato da altri nutrienti e quindi si assorbe più in fretta.

Il saccarosio è un carboidrato molto energetico, composto da una molecola di glucosio e da una molecola di fruttosio, è il cosiddetto zucchero da tavola, che si produce a partire dalle barbabietole da zucchero o dalla canna da zucchero. Si trova anche in altri tipi di frutta e in varie piante e viene ampiamente usato nell’industria alimentare per addolcire il sapore di biscotti, gelati, succhi di frutta, bibite, cereali, caramelle, salse e anche carne in scatola.

Altri zuccheri aggiunti

Altri zuccheri aggiunti che si possono trovare negli alimenti sono:

  • Sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio (HFC): ha la medesima composizione del saccarosio e viene lavorato a partire dall’amido di mais aggiungendo una serie di enzimi. Viene usato in particolare nel gelato per renderlo più cremoso o in alimenti come dolci, biscotti, snack, cereali e succhi di frutta. Le due varietà che vengono abitualmente utilizzate sono l’HFC 55 con il 55% di fruttosio e il 45% di glucosio e acqua e l’HFCS 42, con il 42% di fruttosio.
  • Nettare o sciroppo di agave: estratto da una pianta grassa, l’agave tequilana, si utilizza in prodotti come barrette ai cereali o di frutta e yogurt zuccherato. Abitualmente è composto per il 70-90% di fruttosio e per il 10-30% di glucosio. Se comprato da solo è importante prestare attenzione al colore: più sarà scuro e più sostanze nutritive benefiche per l’organismo avrà al suo interno, come magnesio e potassio.
  • Altri zuccheri a base di fruttosio e/o glucosio: caramello, destrina, destrosio, lattosio, malto d’orzo, maltodestrine, maltosio, melassa, sciroppo d’acero, sciroppo di carruba, sciroppo di mais, zucchero a velo, zucchero di canna, zucchero semolato.
  • Altri zuccheri privi di glucosio e fruttosio: D-ribosio e galattosio. Il ribosio, presente nelle cellule e fondamentale per la produzione di energia, non si trova in quantità adeguate nelle fonti alimentari ed è presente in commercio principalmente in integratori utilizzati da chi pratica sport, mentre il galattosio si trova raramente in natura da solo ed è di solito legato al glucosio con cui forma il lattosio.

Dolcificanti: stevia e saccarina

Per diminuire la quantità di zuccheri si può prestare attenzione ad acquistare prodotti che hanno nella lista di ingredienti dei dolcificanti. I dolcificanti possono essere sia naturali sia artificiali e hanno un potere dolcificante superiore al saccarosio, quindi possono essere usati in quantità minori e sono particolarmente apprezzati da chi deve controllare l’apporto di calorie o le concentrazioni di glicemia. 

Tra i più comuni troviamo la stevia e la saccarina. La stevia è una pianta usata per l’estrazione dei glicosidi steviolitici, sostanze 300 volte più dolci dello zucchero ma con un livello calorico pari quasi allo zero. Per questo la stevia è particolarmente utilizzata da persone con diabete che devono controllare i livelli di glicemia. Utilizzabile sia nei prodotti da forno, sia nelle bevande, bisogna prestare attenzione a non assumerne concentrazioni particolarmente alte, perché potrebbe avere retrogusto amaro ed effetti lassativi.

La saccarina ha un potere dolcificante ancora superiore, di circa 500 volte maggiore dello zucchero e non ha nessuna caloria. Viene assorbita molto rapidamente dall’organismo ma non viene metabolizzata ed è escreta direttamente con le urine, quindi non concorre alla produzione di energia. Viene usata in particolare dalle persone con sovrappeso perché, se sostituita allo zucchero, aiuta a contenere l’assunzione di calorie. Contrariamente a quanto emerso durante un lungo dibattito, gli studi non associano al consumo usuale di saccarina un maggior rischio di sviluppo del tumore della vescica.

Altri dolcificanti

  • Aspartame: più dolce di circa 200 volte rispetto allo zucchero, non va consumato in dosi superiori a 40 mg/kg di peso corporeo ed è sconsigliato alle persone interessate da fenilchetonuria, una patologia genetica rara.
  • Acesulfame k: è di circa 200 volte più dolce dello zucchero e non contiene calorie. Viene usato spesso negli alimenti per diabetici, nei prodotti da forno, nelle bevande e anche nei prodotti per l’igiene orale. Spesso è contenuto in vari prodotti commercializzati con la dicitura “senza zucchero”.
  • Politioli: sono composti chimici, i più comuni sono lo xilitolo, il sorbitolo e l’eritritolo. Lo xilitolo e il sorbitolo sono usati comunemente in prodotti come caramelle, gomme da masticare e dentifrici. L’eritrolo ha un sapore molto simile allo zucchero ma è quasi privo di calorie, per questo motivo viene usato soprattutto da chi deve diminuire l’apporto di zuccheri, da chi segue diete ipocaloriche o a basso contenuto di carboidrati e da chi è interessato da diabete. I politioli se assunti in quantità eccessive possono provocare meteorismo e dissenteria.

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A cura di Valeria Leone
Ipoglicemia: i sintomi della glicemia bassa
Data articolo:Tue, 12 Nov 2024 09:50:10 +0000

L’ipoglicemia nei pazienti con diabete si verifica quando il livello di glicemia (glucosio nel sangue) scende sotto i 70 mg/dl. Nelle persone senza diabete l’ipoglicemia è invece un’evenienza rara ed è definita per valori sotto i 55 mg/dl in presenza dei sintomi tipici.

Ma quali sono i sintomi dell’ipoglicemia? Ne parliamo con il dottor Marco Mirani, Capo Sezione Diabetologia presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas Rozzano. 

Quali sono le cause dell’ipoglicemia?

La causa principale di un calo della glicemia è legata ai farmaci per il diabete. I pazienti che assumono insulina o farmaci che ne stimolano la secrezione (come le vecchie sulfaniluree) sono i più a rischio. 

Le cause non legate invece all’utilizzo di farmaci possono essere:

  • Tumori o altre patologie del pancreas o del fegato
  • Conseguenze di interventi chirurgici allo stomaco, come la sindrome da dumping
  • Ipoglicemia funzionale o reattiva post-prandiale
  • Esercizio fisico intenso o digiuno prolungato
  • Malattie endocrine severe che compromettono i meccanismi controregolatori, come il deficit surrenalico o ipofisario.

I sintomi dell’ipoglicemia

La diagnosi dell’ipoglicemia è complessa a causa della scarsa specificità dei sintomi e della loro variabilità. I sintomi più comuni sono:

Diabete: la crisi ipoglicemica

Il diabete è una condizione patologica che emerge da una compromissione dei meccanismi regolatori del metabolismo glucidico, cioè della produzione e dello smaltimento degli zuccheri. Nel diabete di tipo 2 si osserva, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, un aumento dell’insulina nel sangue (iperinsulinismo) e una resistenza periferica alla sua azione (insulino-resistenza).

In questa situazione, consumare pasti ricchi di carboidrati semplici può causare crisi ipoglicemiche (le cosiddette ipoglicemie reattive). Questo avviene perché gli zuccheri vengono rapidamente assorbiti, portando a concentrazioni nel sangue che superano i valori normali. Di conseguenza, il pancreas rilascia una grande quantità di insulina, che, una volta in circolo e superata la resistenza, può abbassare significativamente la glicemia. 

Nelle persone con diabete, gli episodi ipoglicemici sono spesso dovuti all’uso eccessivo di farmaci per correggere l’iperglicemia, come l’insulina e gli agenti secretagoghi, che stimolano il rilascio di insulina indipendentemente dai livelli di glucosio. I diabetici tendono ad avere livelli di glicemia abitualmente più alti rispetto a quelli dei non diabetici e, quindi, possono manifestare sintomi neurovegetativi dell’ipoglicemia (come tremori, stanchezza, sudorazione, fame, nervosismo) a livelli di glicemia più elevati (circa 70 mg/dL) rispetto agli individui non diabetici (tipicamente 55 mg/dL).

Ipoglicemia: cosa fare

Il trattamento dell’ipoglicemia varia in base alla gravità e alla causa. Se la persona è cosciente, occorre ingerire 10-20 grammi di glucosio (come 2-3 bustine di zucchero o un bicchiere di bevanda zuccherata). I livelli di glicemia devono essere monitorati ogni 10-15 minuti tramite misurazione capillare. Una volta che i valori di glucosio sono sopra i 70 mg/dL, si può passare all’assunzione di carboidrati complessi (come crackers o fette biscottate). In caso di incoscienza, si può utilizzare il glucagone, che è un ormone in grado di mobilizzare le riserve di glucosio corporeo. Il glucagone si può somministrare tramite iniezione intramuscolare, oppure è oggi disponibile una formulazione sotto forma di spray nasale, di utilizzo molto più semplice. Una volta che la persona riprende conoscenza, deve ingerire zuccheri come sopra indicato. Se il paziente non riprende conoscenza, è necessario allertare i soccorsi per una somministrazione endovenosa di glucosio.

Per l’ipoglicemia reattiva, la strategia principale è l’approccio dietetico. Il paziente deve seguire una dieta con pasti piccoli e frequenti, evitando alcolici e zuccheri semplici (come bevande zuccherate, dolci e pane bianco). L’esercizio fisico regolare e il mantenimento di un peso corporeo ideale (con un indice di massa corporea tra 18 e 25 Kg/m2) sono essenziali. L’obiettivo è prolungare e stabilizzare l’assorbimento del glucosio per evitare picchi iperglicemici e conseguente iperinsulinismo, che può portare a ipoglicemia reattiva.

La gestione dietetica deve includere pasti bilanciati con carboidrati, grassi, proteine e fibre. Se la dieta da sola non è sufficiente a prevenire episodi ipoglicemici, possono essere utilizzati farmaci, per esempio l’acarbosio, che riduce l’assorbimento intestinale del glucosio, o la metformina, che riduce l’insulino-resistenza. In altri casi specifici, il trattamento dell’ipoglicemia dipende dalle cause sottostanti, in base alle quali sono disponibili altre opzioni terapeutiche come il diazossido e gli analoghi della somatostatina, che inibiscono il rilascio di insulina, e i corticosteroidi, che ne contrastano l’azione.

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A cura di cmaddaleni
Caduta dei capelli: le cause e i rimedi
Data articolo:Tue, 12 Nov 2024 09:48:25 +0000

Con il cambio di stagione è comune notare una maggiore caduta dei capelli. Anche se questo fenomeno può suscitare preoccupazione, è fondamentale ricordare che si tratta, nella maggior parte dei casi, di un processo naturale e temporaneo, e non c’è motivo di allarmarsi.

È normale perdere dai 50 ai 70 capelli al giorno; tuttavia, specialmente in autunno, la caduta tende ad aumentare. Questo fenomeno è legato al naturale ciclo di ricambio dei capelli, che in queste stagioni accelera in risposta ai cambiamenti climatici.

Quali sono le cause della caduta dei capelli? Ne parliamo con il professor Mario Valenti, dermatologo dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas Rozzano e docente di Humanitas University.

Quali sono le cause della caduta dei capelli?

La perdita di capelli può derivare da molteplici fattori, tra cui:

  • Predisposizione genetica-familiare
  • Squilibri ormonali, come quelli che si verificano durante la menopausa o il post parto o in caso di patologie endocrino-ginecologiche come l’ovaio policistico
  • Problemi circolatori 
  • Cambiamenti stagionali
  • Diete restrittive che possono portare a carenze nutrizionali, in particolare di ferro
  • Stress prolungato
  • Assunzione di alcuni farmaci
  • Interventi chirurgici o traumi psicofisici

Caduta dei capelli: i rimedi

Per affrontare la caduta stagionale, può essere utile integrare la dieta con alimenti ricchi di vitamine del gruppo B ed E e minerali. Un’alimentazione variegata evitando diete restrittive aiuta la salute dei capelli fornendo i macronutrienti necessari alla corretta costituzione. È consigliabile non lavare i capelli troppo frequentemente — due o tre volte a settimana è l’ideale — e utilizzare prodotti delicati o specifici per la caduta dei capelli, come suggerito dal dermatologo. Questi accorgimenti sono importanti anche quando la caduta è dovuta a fattori temporanei come stress o variazioni ormonali.

Calvizie: che cos’è l’alopecia androgenetica

L’alopecia androgenetica, comunemente nota come calvizie, colpisce prevalentemente i maschi e le donne in post-menopausa (o dopo il parto o squilibri ormonali). La principale causa di questa patologia è rappresentata dalla conversione periferica del testosterone nella sua forma attiva il diidrotestosterone (DHT), un’enzima che tende ad atrofizzare i follicoli piliferi e porta alla miniaturizzazione del follicolo e del capello che nasce. Fattori come la predisposizione familiare, lo stress e l’assunzione di alcuni farmaci possono essere fattori contribuenti.

Calvizie: i sintomi e la cura

I segni clinico-tricoscopici di alopecia androgenetica includono capelli che appaiono più sottili e deboli, con un diradamento evidente e prevalente in area fronto-temporale e al vertex per l’uomo. Nella donna il diradamento è più diffuso, con una prevalente distribuzione centrale. 

La diagnosi di alopecia androgenetica avviene tramite una visita tricologica, in cui il dermatologo analizza le possibili cause ed esclude altre patologie. Strumenti diagnostici come la tricoscopia possono rivelare segni distintivi dell’alopecia.

Per il trattamento, sono disponibili diverse opzioni farmacologiche mirate a interrompere il diradamento dei capelli ed aiutare la ricrescita. I farmaci più comuni includono minoxidil, che stimola la ricrescita, e la finasteride, che contrasta gli effetti negativi degli androgeni sui follicoli. Altri supporti, come shampoo specifici e integratori, possono affiancare queste terapie. In casi avanzati, si può prendere in considerazione il trapianto di capelli o trattamenti rigenerativi come il PRP (plasma ricco di piastrine).

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A cura di cmaddaleni
Cortisolo alto: quali sono i sintomi e come abbassarlo
Data articolo:Tue, 12 Nov 2024 09:46:36 +0000

Il cortisolo è un ormone secreto dalle ghiandole surrenali che viene normalmente prodotto in risposta a stimoli stressanti e che, in presenza di stati di ansia duraturi e di altre condizioni, può essere presente nell’organismo in concentrazioni più elevate della norma. Si tratta infatti di un ormone la cui concentrazione tende a fluttuare nel corso sia di lunghi periodi, che di una singola giornata. Quando i livelli di cortisolo si mantengono alti per un tempo prolungato, questi possono associarsi a una serie di disturbi, tra cui il sovrappeso, la spossatezza e l’acne.

Quali sono i sintomi provocati dall’aumento dei livelli di cortisolo? E come si può ripristinare una concentrazione di cortisolo nella norma? Ne parliamo con il professor Andrea Lania, Responsabile di Endocrinologia e Diabetologia presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas Rozzano, e la dottoressa Lucrezia Gentile, specializzanda in Endocrinologia. 

Che cos’è il cortisolo?

Il cortisolo è prodotto dalle ghiandole surrenali e il suo bilanciamento è controllato dalla ghiandola pituitaria. Esso partecipa a una serie di importanti funzioni dell’organismo, tra cui la risposta agli stimoli di stress e di pericolo. Inoltre, è coinvolto nel bilanciamento del metabolismo, dei cicli sonno-veglia, della pressione sanguigna e degli zuccheri nel sangue. Il cortisolo ha anche un ruolo nel contenimento dei processi infiammatori e nella funzionalità della memoria. Per queste ragioni, è importante che i suoi valori si mantengano il più possibile in equilibrio.

Il cortisolo è anche conosciuto come “ormone dello stress” perché la sua produzione aumenta in relazione a episodi di stress acuto (quindi un momentaneo spavento), di stress traumatico (per esempio quando si sperimenta un grave incidente), o di stress cronico (quando la circostanza che provoca stati ansiosi è prolungata nel tempo ed interferisce con la quotidianità). In quest’ultimo caso, i livelli di cortisolo nel sangue possono presentarsi più alti della norma per un lasso di tempo importante. L’innalzamento dei livelli di cortisolo può essere anche determinato dall’utilizzo massiccio di farmaci corticosteroidi, da alcune tipologie di tumori e, in alcuni rari casi, dalla sindrome di Cushing.

Cortisolo alto: i sintomi

Quando il cortisolo è presente in concentrazioni troppo elevate nell’organismo (come nel caso della sindrome di Cushing) possono avere luogo manifestazioni come:

Il cortisolo alto, inoltre, aumenta il rischio di sviluppare patologie croniche come il diabete di tipo 2 e alcune patologie cardiache e può comportare un abbassamento delle difese immunitarie.

Dieta, sonno ed esercizio fisico regolare: come abbassare il cortisolo

A meno che l’innalzamento del cortisolo non sia associato a patologie specifiche, in presenza di fluttuazioni fisiologiche o di momenti di stress prolungato, ci sono alcune strategie in grado di abbassare le concentrazioni di cortisolo in maniera naturale.

In primis è importante modificare lo stile di vita, per esempio regolarizzando il ritmo sonno-veglia, cercando di andare a dormire sempre alla stessa ora in un ambiente buio, silenzioso e non troppo caldo. Nelle ore immediatamente precedenti il riposo notturno è consigliato, inoltre, evitare l’esercizio fisico e l’esposizione a schermi retroilluminati, nonché l’assunzione di caffeina e alcolici. Importante è anche indagare l’eventuale presenza di disturbi del sonno che compromettono il riposo notturno, come l’insonnia o l’apnea ostruttiva.

Avere una vita attiva ed effettuare esercizio fisico con regolarità è fondamentale. L’esercizio regolare (da bilanciare in base alle proprie condizioni cliniche), infatti, influenza i livelli di cortisolo, comportandone un iniziale innalzamento al momento dello sforzo a cui segue una riduzione nelle ore successive. Inoltre, è dimostrato che eseguire abitualmente esercizi aerobici a bassa o media intensità riduce il rischio di insorgenza di patologie croniche, patologie cardiache e stress.

Anche l’alimentazione deve essere bilanciata, con la riduzione del consumo di zuccheri, cereali raffinati e grassi saturi, che favoriscono l’aumento di cortisolo. Una dieta ricca invece di frutta e verdura, legumi, cereali integrali e grassi insaturi, accompagnata da una buona idratazione, aiuta a mantenere la concentrazione di cortisolo nella norma. Inoltre, preferire una dieta bilanciata favorisce il mantenimento di un buon equilibrio del microbiota intestinale, che sappiamo essere associato a una diminuzione degli stati ansiosi.

Cortisolo alto: il ruolo dello stress

Quando lo stress è associato a eventi lavorativi o familiari è possibile che si instaurino pattern di pensieri ricorrenti che a loro volta aumentano lo stato di ansia. Imparare a riconoscerli e interromperli, facendo esercizi di respirazione, concentrandosi sul momento presente (la cosiddetta “mindfulness”), aiuta a contenere lo stress. Vale ovviamente la considerazione di rivolgersi a specialisti psicoterapeuti, quando necessario.

Anche dare spazio a momenti di leggerezza nella giornata, magari provando a ritagliarsi del tempo per attività personali, come ascoltare musica o fare giardinaggio, aiuta a contenere i livelli di cortisolo. Ridere o provare allegria, infatti, aiuta a liberare le endorfine, neurotrasmettitori associati a una diminuzione del cortisolo, mentre concentrarsi in attività hobbistiche e creative tende ad abbassare lo stress e, di conseguenza, ad avere effetto anche sulla produzione di cortisolo.

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A cura di Valeria Leone
A cosa serve l’ecografia del fegato e delle vie biliari
Data articolo:Tue, 12 Nov 2024 09:44:16 +0000

L’ecografia del fegato e delle vie biliari è un esame diagnostico non invasivo che impiega onde sonore ad alta frequenza, chiamate ultrasuoni, per esaminare il fegato, i vasi sanguigni epatici, le vie biliari e la cistifellea (o colecisti). Questo tipo di osservazione si effettua durante un’ecografia della parte superiore dell’addome.

Quando può essere utile questo esame? Ne parliamo con la dottoressa Cristina Gilda De Fazio, ecografista dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano presso i centri medici Humanitas Medical Care.

A cosa servono il fegato e le vie biliari

Il fegato si trova nella porzione destra dell’addome superiore e può estendersi anche verso sinistra. La sua forma e dimensioni possono variare tra le persone, a seconda del tipo di corporatura (longilineo, brachitipo) e per via di variazioni legate all’età, al peso corporeo e al sesso. Questo organo svolge funzioni fondamentali per l’organismo umano, tra cui:

  • Funzioni metabolico-digestive: produce la bile, essenziale per la digestione dei grassi e per l’assorbimento delle vitamine A, D, E e K.
  • Regolazione dei livelli glicemici: trasforma il glicogeno immagazzinato nel fegato in glucosio quando necessario, e contribuisce alla demolizione dell’insulina e di altre proteine con funzione energetica.
  • Produzione dei fattori della coagulazione, essenziali per il processo di coagulazione del sangue.
  • Detossificazione: filtra tossine e farmaci grazie alle sue cellule immunitarie.
  • Eliminazione delle cellule del sangue invecchiate e danneggiate, con il supporto della milza.

Le vie biliari sono una rete di dotti costituiti da cellule epiteliali, chiamate colangiociti, che trasportano la bile prodotta dal fegato verso l’intestino tenue, dove contribuisce alla digestione.

Ecografia del fegato e delle vie biliari: quando farla?

Le principali indicazioni per eseguire questo esame includono:

  • Aumento del volume del fegato. Se durante una visita medica viene riscontrato un incremento del volume dell’organo, può essere necessario un approfondimento ecografico per valutare la causa.
  • Alterazioni degli indici epatici. In presenza di anomalie nei test di funzionalità epatica, come le transaminasi (indicative di necrosi), la gammaGT e la fosfatasi alcalina (indicative di stasi), o alterazioni dei parametri di sintesi come l’albumina, il PT, il PTT e la colinesterasi.
  • Dolore addominale. Il fegato è dotato di fibre nervose dolorifiche nella sua capsula. Un aumento volumetrico rapido, come in un’epatite acuta, può provocare dolore a causa della distensione della capsula.
  • Sospetto di colica biliare. Se si manifesta un dolore persistente nell’ipocondrio destro, irradiato alla scapola e duraturo per almeno 30 minuti, spesso accompagnato da nausea e/o vomito, l’ecografia può aiutare a diagnosticare eventuali problemi alla colecisti.
  • Ittero. La colorazione giallastra della pelle, delle sclere oculari e delle mucose può indicare problemi epatici o biliari, e l’ecografia è utile per indagare le cause sottostanti.

A cosa serve l’ecografia del fegato e delle vie biliari?

L’ecografia del fegato e delle vie biliari è uno strumento diagnostico essenziale per diverse valutazioni cliniche. Questa indagine permette di:

  • Valutare l’anatomia del fegato e delle vie biliari. L’ecografia fornisce un’immagine dettagliata della struttura di questi organi, utile per confermare o escludere sospetti di patologie acute, come le epatiti, o condizioni croniche, come la cirrosi epatica.
  • Identificare la presenza di neoplasie. L’esame può rilevare la presenza di tumori, sia benigni che maligni e in alcune situazioni, può essere effettuato con l’uso di mezzi di contrasto ecografici come l’esafluoruro di zolfo per una valutazione più approfondita.
  • Ricercare calcolosi. È particolarmente efficace nella diagnosi di calcoli nelle vie biliari e nella cistifellea, condizioni che possono causare ostruzioni e dolori addominali.
  • Riconoscere anomalie dei dotti biliari. L’ecografia consente di identificare ostruzioni o anomalie nei dotti biliari, che possono compromettere la normale circolazione della bile e influenzare il funzionamento dell’apparato digerente.

Come funziona l’ecografia

Per eseguire l’ecografia del fegato e delle vie biliari, il paziente viene fatto sdraiare in posizione supina. Lo specialista applica una piccola quantità di gel sulla parte superiore dell’addome, il quale serve a garantire un buon contatto tra la sonda e la pelle. Successivamente, la sonda, collegata all’apparecchiatura ecografica, viene posizionata e movimentata sulla zona per ottenere le immagini delle strutture esaminate.

L’ecografia è un esame non invasivo e privo di rischi per il paziente. La durata dell’esame è generalmente di circa 20 minuti.

Per prepararsi all’ecografia del fegato e delle vie biliari, è necessario che il paziente osservi un digiuno di almeno 8 ore prima dell’esame, pur potendo bere acqua naturale.

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A cura di cmaddaleni
Si può essere dipendenti dai social media?
Data articolo:Tue, 12 Nov 2024 09:40:30 +0000

I social sono strumenti per facilitare la socializzazione, condividendo aspetti e momenti di sé e della propria vita.  

Con il passare del tempo, tuttavia, si è osservato un paradossale incremento riguardo all’isolamento sociale e non solo nelle fasce giovanili, in concomitanza al maggior uso di queste piattaforme/app. I social possono causare dipendenza e dunque accompagnarsi a isolamento sociale?

Ne parliamo con il dottor Pietro Ramella, psicologo e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare.

La dipendenza dai social esiste davvero?

Il manuale psichiatrico dei disturbi mentali, redatto dall’American Psychiatric Association (DSM 5), non menziona ancora specificamente la dipendenza dai social media, ma fa riferimento più genericamente alla dipendenza da internet, denominata Internet Addiction Disorder (IAD). La IAD, pur non essendo ancora classificata come una diagnosi principale, è stata proposta come una condizione che richiede ulteriori studi prima di essere definitivamente inclusa tra i disturbi psicologici/psichiatrici. Ciò non implica che il fenomeno non esista, ma semplicemente che non è ancora stato definito in modo chiaro dalla comunità scientifica.

La dipendenza dai social media è un problema reale che si è diffuso almeno nell’ultima decade. Pertanto questa condizione potrebbe essere considerata nelle future revisioni dei manuali, poiché il comportamento dei pazienti è simile a quello di pazienti con altre forme di dipendenza, pur differenziandosi nel tipo di comportamento.

Nonostante i social media siano nati come un ambiente alternativo per una diversa socialità o come strumenti per facilitare la socializzazione, nel tempo sono diventati sempre più una vetrina per personaggi e modelli da seguire ed emulare, trasformandosi in veri e propri strumenti di marketing e pubblicità, piuttosto che essere semplici “luoghi” di interazione sociale. Sebbene gli studi su questo tema non siano ancora completi, si potrebbe ipotizzare, analogamente ad altre forme di dipendenza, che il fattore genetico possa rappresentare un rischio, ma ciò dipenderà anche dal contesto di vita del soggetto. 

Alcune persone possono essere più “vulnerabili” a essere coinvolte in una dipendenza dai social media rispetto ad altre, e questa vulnerabilità potrebbe interagire con l’ambiente in cui vivono, come la scuola, la casa, il lavoro, gli hobby e le relazioni interpersonali in generale, e tutte le esperienze sociali legate a questi contesti.  

Quali sono i sintomi della dipendenza dai social? 

Per identificare la dipendenza dai social media, è possibile utilizzare almeno tre criteri comunemente adottati per evidenziare tutte le forme di dipendenza:

  • Scadimento funzionale: la persona dedica sempre più tempo ai social media, a discapito di altre attività fondamentali come il lavoro, lo studio, le relazioni interpersonali, l’alimentazione e l’igiene personale.
  • Craving: se la persona non ha accesso ai social media o non può utilizzarli in un dato momento, sperimenta un disagio e una costante spinta a cercare il proprio smartphone, tablet o computer per accedere ai social, simile al processo di altre dipendenze come alcol, sostanze, cibo o gioco d’azzardo.
  • Tolleranza: se il bisogno di utilizzare i social media viene temporaneamente frenato, il comportamento evolve aumentando sia la frequenza che l’intensità dell’uso delle applicazioni, fino a occupare gran parte del tempo di veglia della persona, talvolta anche durante la notte. La persona sente il bisogno di trascorrere sempre più tempo sui social media, come accade con molte altre dipendenze comportamentali. 

Come succede, ad esempio, nel gioco d’azzardo o in altre dipendenze da sostanze, nei social media si potrebbe per esempio cercare una gratificazione istantanea attraverso l’ottenimento di like (cioè conferme) per i contenuti pubblicati, cercando di ottenere il maggior numero possibile di apprezzamenti nel minor tempo possibile.

La persona dipendente dai social media può manifestare anche la paura di sentirsi esclusa o di perdere qualcosa (FOMO – fear of missing out), quindi ha la necessità di essere costantemente aggiornata su tutto ciò che accade, in modo da poter discutere con gli altri durante i momenti di aggregazione.

Il mondo dei social media può essere visto come uno stimolo sempre presente, a cui si può accedere in qualsiasi momento e del quale sembra che non si possa più fare a meno, poiché non si sopporta più l’idea di “noia”, o comunque potrebbero anche essere utilizzati come strategie disfunzionali per provare a regolare le proprie emozioni, con conseguenze però negative alcune delle quali descritte sopra.

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A cura di Valeria Leone


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