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Lenti a contatto, come usarle correttamente
Data articolo:Mon, 07 Jul 2025 10:18:02 +0000

Le lenti a contatto sono una valida opzione per chi cerca un’alternativa agli occhiali da vista, non solo per motivi estetici e pratici, ma anche per la qualità della visione che offrono. Tuttavia, è essenziale utilizzarle correttamente per garantire sicurezza e comfort. 

Approfondiamo l’argomento con la dottoressa Costanza Tredici, oculista presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

Come scegliere le lenti a contatto?

Esistono vari tipi di lenti a contatto, giornaliere, settimanali, mensili; morbide, semirigide, rigide. La scelta delle lenti dipende principalmente dal difetto visivo da correggere, come miopia, ipermetropia e/o astigmatismo, ma anche dalla presenza di eventuali patologie corneali (quali il cheratocono) e dalla qualità del film lacrimale. In caso, per esempio, di occhio secco sono maggiormente consigliate lenti a contatto giornaliere perché più idratate. 

Le lenti a contatto si adattano alla superficie corneale, permettendo una visione chiara in tutti i contesti luminosi, in particolare con il buio. È importante considerare che la curvatura corneale varia da persona a persona e, in alcuni casi, le lenti su misura possono essere necessarie per garantire un’aderenza perfetta alla superficie corneale, migliorando così il comfort e la funzionalità. 

Per coloro che utilizzano lenti settimanali o mensili è essenziale prestare particolare attenzione alla corretta disinfezione, scegliendo i prodotti più adatti. Le soluzioni uniche, che combinano pulizia, risciacquo e disinfezione, devono essere sostituite ogni volta che le lenti vengono riposte nel contenitore. Inoltre, è fondamentale disinfettare con cura il contenitore delle lenti ed evitare assolutamente di indossare le lenti senza una disinfezione adeguata.

Di recente sono stati anche introdotti colliri che uniscono sostanze idratanti (come l’acido ialuronico) a principi attivi antimicrobici (come il PoliEsaMetilenBiguanide-PHMB), molto utili al portatore di lenti a contatto perché combinano idratazione a disinfezione, riducendo potenzialmente il rischio infettivo.

Quando evitare le lenti a contatto?

L’uso delle lenti a contatto potrebbe non essere consigliato in presenza di conclamata secchezza oculare. La carenza di lubrificazione può causare attrito tra la lente e la superficie oculare, con potenziale rischio di microlesioni dell’epitelio corneale e di infezioni. In questi casi è utile ricorrere a sostituti lacrimali, che possono essere utilizzati anche in combinazione con le lenti a contatto per migliorare il comfort e la protezione dell’occhio.

Per quanto tempo si possono usare le lenti a contatto?

Indossare le lenti a contatto per periodi prolungati, superiori a 6-8 ore al giorno, può comportare rischi per la salute oculare. Anche se le lenti moderne sono progettate per essere gas permeabili e consentire il passaggio dell’ossigeno, un uso eccessivo può ridurre l’apporto di ossigeno alla cornea, compromettendo la sua fisiologia e causando problemi oculari. 

Inoltre, senza una corretta manutenzione le lenti possono diventare un veicolo per infezioni oculari. Anche se i casi gravi sono relativamente rari, è fondamentale adottare tutte le precauzioni necessarie per evitare complicazioni.

Lenti a contatto al mare e in piscina

Le regole di igiene e di corretta manutenzione delle lenti a contatto sono fondamentali tutto l’anno, ma in estate è necessario adottare ulteriori precauzioni. In particolare è cruciale prestare attenzione alla sabbia. Il vento in spiaggia può sollevare microparticelle di detriti che, se entrano sotto la lente, possono causare microlesioni alla cornea e provocare danni significativi. Durante i bagni in mare, l’elevato tasso di salinità può disidratare la superficie corneale e alterare le caratteristiche delle lenti. Anche in piscina il cloro può irritare la congiuntiva e la superficie oculare.

In genere è comunque sconsigliato fare il bagno con le lenti perché l’acqua del mare o della piscina può causare infezioni talvolta molto difficili da debellare o potenzialmente in grado di danneggiare in modo irreversibile la cornea.

In ogni caso, per i bagni in mare e in piscina è preferibile indossare lenti giornaliere usa e getta, sostituendole dopo ogni bagno e usare occhialini di protezione. Questo approccio riduce il rischio di perdita e minimizza la possibilità di contaminazione delle lenti. L’uso di prodotti usa e getta evita anche problemi legati all’alterazione della composizione e della struttura delle lenti, mantenendo così la loro sicurezza e funzionalità. 

Lenti a contatto: attenzione all’igiene

Mantenere le mani pulite durante l’applicazione delle lenti a contatto è fondamentale per prevenire infezioni. In particolare, i protozoi come l’Acanthamoeba possono essere altamente pericolosi per la cornea, causando infezioni aggressive. Questo protozoo si trova spesso nelle acque stagnanti e, a volte, in piscine dove la disinfezione dell’acqua non è adeguata. Bisognerebbe quindi evitare l’uso delle lenti a contatto se non è possibile rispettare rigorosamente le norme igieniche. 

Qualsiasi arrossamento degli occhi dopo l’uso delle lenti non deve essere ignorato. Se si verifica un arrossamento, è fondamentale non solo sospendere l’uso delle lenti (per questo è bene avere sempre con sé un paio di occhiali di riserva), ma anche consultare un oculista. I problemi più gravi si verificano nelle persone che continuano a indossare le lenti nonostante l’arrossamento o in coloro che, pur evitando di riapplicare le lenti, non effettuano i necessari accertamenti.

Una visita precoce in presenza di sintomi è essenziale, idealmente con la lente a contatto che ha causato l’irritazione. Questo permette al medico di eseguire un esame colturale sia sulla superficie oculare che sulla lente stessa. Se la lente risulta infetta, è possibile identificare l’agente patogeno e procedere con una terapia mirata, piuttosto che con trattamenti generali.

Lenti a contatto: i disturbi più comuni

Tra i disturbi più comuni provocati dalle lenti a contatto troviamo:

  • infezioni: congiuntiviti, blefariti, cheratiti che possono complicarsi con ulcere corneali
  • ipossia corneale (abbassamento nell’ossigenazione della cornea)
  • epiteliopatia corneale
  • neovasi corneali
  • secchezza oculare
  • iperemia congiuntivale.

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A cura di cmaddaleni
Dolore alla spalla: le cause e cosa fare
Data articolo:Mon, 07 Jul 2025 10:16:25 +0000

Le lesioni alla spalla sono piuttosto comuni, soprattutto tra gli sportivi che eseguono movimenti ripetitivi, come nuotatori, tennisti e golfisti. Tuttavia, anche le attività quotidiane più semplici possono provocare danni alla spalla.

Molte persone convivono quotidianamente con questo tipo di dolore e con una conseguente riduzione della mobilità (dovuta a debolezza o difficoltà nel sollevare il braccio), spesso pensando che “prima o poi passerà da solo”, senza rendersi conto che ignorare un problema alla spalla può comportare complicazioni più gravi.

Quali possono essere le cause e cosa fare? Ne parliamo con il dottor Mario Borroni, specialista di Ortopedia della Spalla e del Gomito dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

Quali sono le cause del dolore alla spalla?

La spalla è l’articolazione del corpo con la maggiore mobilità e questo la rende suscettibile a diversi tipi di infortuni. Tra i più comuni troviamo:

  • Tendinite: infiammazione di uno o più tendini della cuffia dei rotatori o del capo lungo del bicipite brachiale, solitamente dovuta a movimenti ripetitivi e/o usuranti.
  • Borsite: infiammazione delle “borse”, piccole sacche piene di liquido sinoviale che proteggono le articolazioni. Può essere infiammatoria, causata da sfregamenti e sollecitazioni, o emorragica, provocata da traumi che rompono i vasi sanguigni, causando un travaso di sangue.
  • Lesione alla cuffia dei rotatori: rottura parziale o completa di uno dei quattro tendini che compongono la cuffia dei rotatori. Si tratta di un danno comune tra chi pratica sport o lavori ripetitivi. Il dolore è spesso descritto come un dolore sordo che peggiora dormendo in appoggio sulla spalla interessata. La lesione può causare debolezza nel braccio, rendere difficile portare il braccio dietro la schiena e svolgere attività quotidiane come spazzolarsi i capelli.
  • Spalla congelata: infiammazione della capsula articolare; una condizione che si sviluppa gradualmente, causando dolore e rigidità, soprattutto di notte. 
  • Instabilità/lussazione: perdita dei rapporti articolari tra omero e scapola. Può derivare da un uso eccessivo della spalla o da incidenti improvvisi. Una volta lussata, la spalla tende generalmente a lussarsi di nuovo, portando a instabilità cronica. La lussazione può avvenire per un trauma diretto o per un movimento oltre il limite massimo tollerato, causando lesioni ai legamenti. Alcune lussazioni sono causate da una lassità costituzionale del paziente, e richiedono una valutazione approfondita.
  • Artrosi: usura della cartilagine articolare che causa dolore, debolezza e perdita di movimento. È comune nella popolazione anziana ma spesso sottovalutata, nonostante le tecniche moderne permettano di trattarla efficacemente.

Dolore alla spalla, cosa fare?

Se il dolore persiste per più di alcuni giorni o non si allevia con la terapia antinfiammatoria prescritta dal medico, è consigliabile consultare uno specialista. Tra gli esami utili per un corretto inquadramento clinico ci sono la radiografia e la risonanza magnetica.

Il trattamento varia a seconda della causa del dolore. Le principali opzioni terapeutiche sono:

  • Fisioterapia. Utile per rinforzare la muscolatura, rieducare il movimento articolare e migliorare l’equilibrio e la mobilità della spalla, soprattutto se la patologia non è in fase avanzata.
  • Terapie fisiche. Tecniche come laser, ultrasuoni e Tecarterapia possono aiutare a ridurre l’infiammazione, ma generalmente sono solo di supporto alla fisioterapia assistita.
  • Terapia infiltrativa. Iniezioni locali di acido ialuronico o cortisonici possono essere efficaci anche se, spesso, solo temporaneamente.
  • Chirurgia. Da prendere in considerazione in caso di danni anatomici, per riparare i tendini, per stabilizzare spalle instabili e prevenire ulteriori lussazioni o per sostituire articolazioni artrosiche con protesi di ultima generazione.

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A cura di cmaddaleni
Come proteggere gli occhi in estate
Data articolo:Fri, 04 Jul 2025 12:40:20 +0000

Durante l’estate è fondamentale prendersi cura della salute degli occhi, non solo per proteggersi dai danni dell’esposizione solare, ma anche per difendersi dal vento, dalla sabbia e soprattutto dalle infezioni. 

Quali precauzioni adottare per proteggere la vista? Ne parliamo con la dottoressa Costanza Tredici, oculista dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas Rozzano.

Occhi: i danni del sole

Un’esposizione prolungata e senza protezione alla luce solare, soprattutto in ambienti marini dove il riflesso dell’acqua amplifica l’effetto dei raggi UV, può provocare irritazioni, bruciore, secchezza oculare, gonfiore e infiammazione. Per la prevenzione occorre indossare un buon paio di occhiali da sole con filtro UV. In caso di irritazione, si può utilizzare un collirio lubrificante a base di acido ialuronico, evitando altri ingredienti come vasocostrittori o camomilla. Tuttavia, se la situazione non migliora, è necessario consultare uno specialista oculista

L’infiammazione oculare può essere causata anche dall’immersione in mare o in piscina: pertanto è consigliabile utilizzare sempre una maschera o degli occhialini se si decide di immergere la testa nell’acqua. Le piscine, in particolare, contengono elevate concentrazioni di cloro necessarie per controllare la proliferazione dei batteri. L’esposizione prolungata all’acqua clorata, senza protezione agli occhi, può causare facilmente irritazione.

Inoltre, l’esposizione eccessiva e prolungata ai raggi ultravioletti nel corso degli anni aumenta il rischio di sviluppare cataratta e degenerazione maculare.

Secchezza oculare: quali rimedi

Sono disponibili diversi tipi di colliri a base di acido ialuronico a varie concentrazioni, che possono essere utilizzati come lubrificanti specie se applicati più volte al giorno. Le soluzioni monodosi, da utilizzare fino all’esaurimento della fiala, offrono il massimo livello di sicurezza contro le infezioni, ma sono disponibili anche flaconi multidose con sistemi di erogazione che mantengono la sterilità del contenuto. I flaconi tradizionali, invece, possono contaminarsi facilmente a causa del contatto frequente con il bordo palpebrale e, se trascurati in borsa per lungo tempo ed esposti a temperature elevate, possono diventare terreni di coltura batterica. I colliri contenenti altri ingredienti, come la camomilla, possono essere meno sicuri, specialmente per chi ha allergie.

Sabbia negli occhi: cosa fare?

In caso di sabbia negli occhi è necessario risciacquarli immediatamente con abbondante acqua dolce, evitando di strofinarli. Se il dolore e il fastidio persistono, meglio consultare un oculista o recarsi al pronto soccorso per escludere la possibilità di abrasioni alla cornea causate dalla presenza prolungata di un corpo estraneo nell’occhio (se non espulso immediatamente con il film lacrimale). 

Quali occhiali da sole scegliere?

La scelta degli occhiali da sole deve prevedere la certificazione di qualità (CE) che assicurino la protezione al 100% dai raggi ultravioletti. Ricordiamo che i raggi UV filtrano anche attraverso le nuvole quindi è opportuno usare sempre un’adeguata protezione, specie in alta montagna e al mare.

Il poliuretano NXT è uno dei materiali più affidabili per la realizzazione delle lenti (garantisce una visione nitida e offre flessibilità e resistenza); in alternativa, è possibile optare per lenti in vetro o policarbonato.

Durante l’esposizione al mare o in piscina è consigliabile utilizzare lenti con filtri polarizzati, che aiutano a ridurre i riflessi dalla superficie. 

Al mare si possono mettere le lenti a contatto?

Al mare è necessario gestire le lenti a contatto con estrema cautela: devono essere indossate o rimosse solo con le mani estremamente pulite e devono essere tolte rapidamente se si sospetta che della sabbia sia entrata nell’occhio.

Dato che sono realizzate in materiale sintetico, le lenti a contatto tendono a trattenere polvere, batteri e depositi di sali minerali presenti nelle lacrime: andrebbero evitate o comunque sostituite dopo ogni bagno in mare o in piscina per evitare la contaminazione con patogeni presenti in acqua.

Mantenere un’adeguata igiene mentre si indossano le lenti a contatto è fondamentale. Le lenti giornaliere (usa e getta) offrono il massimo grado di sicurezza. Infine, bisogna evitare assolutamente di dormire con le lenti a contatto, mai lavarle con acqua del rubinetto e mai utilizzare contenitori di conservazione per più di un mese, poiché la plastica può accumulare batteri nonostante l’uso di soluzioni di pulizia.

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A cura di cmaddaleni
Melanoma, i sintomi e a chi rivolgersi
Data articolo:Fri, 04 Jul 2025 12:35:44 +0000

Il melanoma è il tumore della pelle altamente aggressivo che deriva dalle cellule della pigmentazione cutanea, i melanociti, e che si presenta come una lesione più o meno pigmentata che può crescere velocemente. 

Il melanoma è una condizione neoplastica abbastanza frequente: nel corso degli ultimi anni si è registrato un incremento nella diagnosi di melanomi sottili, che generalmente sono meno pericolosi, mentre rimane stabile il numero di diagnosi dei melanomi spessi, che sono pericolosi e possono provocare metastasi (AIRC, 2025).

Come si diagnostica il melanoma? Ne parliamo con il professor Marco Ardigò, Capo Sezione di Dermatologia Oncologica presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

A chi rivolgersi dopo una diagnosi di melanoma?

La diagnosi di melanoma può essere sospettata sulla base di un’osservazione clinica di una lesione cutanea oppure confermata in modo definitivo attraverso un esame istologico. Il dermatologo è il primo riferimento per la diagnosi clinica e il sospetto diagnostico: è lui che può indirizzare il paziente verso un percorso di approfondimento e trattamento adeguato in base alla gravità della malattia.

Una volta formulata la diagnosi di melanoma, è fondamentale rivolgersi a un centro specializzato o a un centro di riferimento, dove essere seguiti da medici esperti e con competenze specifiche nel trattamento di questa patologia. Un percorso multidisciplinare, condotto da specialisti qualificati, garantisce le migliori possibilità di cura e di gestione della malattia.

Come vengono seguiti i pazienti ad alto rischio di melanoma?

L’identificazione dei pazienti ad alto rischio di melanoma rappresenta un aspetto molto importante in ambito dermatologico. È un processo complesso che si avvale di algoritmi e strumenti diagnostici che aiutano l’identificazione di questi pazienti. Gli aspetti che vanno considerati in questo tipo di valutazione sono svariati e comprendono le caratteristiche individuali del paziente e la storia clinica personale e familiare di melanoma. Inoltre, vengono analizzate le caratteristiche specifiche delle lesioni cutanee, come i nei presenti sulla pelle, mediante tecniche di dermoscopia, che consentono un’osservazione più dettagliata e precisa delle caratteristiche delle lesioni sospette.

In che percentuale il melanoma è pericoloso?

Oggi, grazie ai progressi in ambito dermatologico, è possibile curare il melanoma con successo attraverso la semplice asportazione chirurgica nell’80-85% dei casi. Per limitare i rischi legati a questa forma di tumore è fondamentale diagnosticarlo quando è ancora molto superficiale e sottile, al di sotto degli 0.8 millimetri
La diagnosi precoce quindi è un elemento fondamentale per la cura del melanoma e per questo è molto importante che i pazienti effettuino regolarmente controlli della propria pelle e siano attenti ai cambiamenti cutanei, soprattutto in presenza di fattori di rischio.

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A cura di Valeria Leone
Difficoltà a dormire in estate: quali rimedi?
Data articolo:Wed, 02 Jul 2025 13:40:22 +0000

Nei mesi estivi è possibile sperimentare una carenza di sonno, dovuta sia all’allungarsi delle ore di luce, che può portare a ritardare l’orario del riposo notturno, sia all’aumento delle temperature, alla maggior presenza di insetti, come le zanzare, rispetto ai mesi invernali, ma anche all’esposizione all’inquinamento acustico, a cui può portare dormire con le finestre aperte, e che può disturbare il sonno.
Le ore di riposo, tuttavia, sono fondamentali per una buona qualità di vita e per mantenere il proprio corpo in salute. Dormire un numero adeguato di ore fa bene al corpo e alla mente, influenza produttività, tono dell’umore e capacità decisionale.

Quali sono i rimedi per dormire bene nonostante il caldo? L’aria condizionata fa bene o è meglio evitarla? 
Approfondiamo l’argomento con il dottor Vincenzo Tullo, neurologo e specialista in medicina del sonno presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e Humanitas Mater Domini. 

Come dormire bene con il caldo?

Dormire bene è un elemento fondamentale di uno stile di vita equilibrato, non solo in estate. Nei mesi estivi, tuttavia, alcune condizioni possono mettere a rischio la qualità del sonno. 

Alcune accortezze possono però essere di aiuto:

  • Consumare una cena leggera è utile per non appesantire lo stomaco e, dunque, aumentare il calore corporeo proprio prima di andare a dormire. Tra gli alimenti di cui si dovrebbe fare a meno nei mesi estivi ci sono quelli grassi, come i formaggi stagionati, gli insaccati e le carni grasse. Favorisce invece il sonno un’alimentazione ricca di frutta, tra cui banane, mele, pesche, albicocche e frutta secca, ma anche verdure a foglia larga, come cavoli, radicchio e verze, riso integrale, pesce e tacchino. Questi cibi, infatti, contribuiscono all’apporto di sali minerali, vitamine A, D e B1 e triptofano.
  • Mantenersi idratati. Bere molta acqua aiuta il reintegro di quei liquidi che sono stati espulsi tramite la sudorazione e abbassa la temperatura corporea. Da evitare però gli alcolici, la cui azione è opposta, le bevande energetiche e il caffè nelle ore serali. Anche il cioccolato, dalle note proprietà eccitanti, andrebbe evitato in serata, così come il fumo.
  • Una doccia tiepida o fresca prima di andare a dormire è d’aiuto per abbassare la temperatura corporea, così come l’utilizzo di lenzuola di cotone o lino e di un pigiama, sempre dei medesimi tessuti, dalla vestibilità comoda. Bisogna invece evitare sia i tessuti sintetici, sia dormire senza vestiti, perché nelle prime ore del mattino la temperatura si abbassa e il nostro corpo potrebbe avvertire freddo e portare a risvegliarci.
  • Cercare di mantenere un tono dell’umore rilassato, ricordandosi che anche dormire con braccia e gambe divaricate, se si ha sufficiente spazio, aiuta la dispersione del calore in eccesso.
  • Mantenere una regolarità nelle ore sonno-veglia, coricandosi e svegliandosi sempre nei medesimi orari.
  • Qualora si volesse fare un riposino ristoratore durante la giornata, ricordarsi di non superare i 45 minuti di sonno giornaliero.
  • Evitare attività fisiche o sportive prima di dormire.
  • Se possibile scegliere un letto comodo e mantenere la propria stanza ben ventilata e a una temperatura adatta al riposo. Il consiglio è quello di chiudere le persiane o le tapparelle nelle ore più calde in cui, a seconda dell’esposizione della stanza, il sole potrebbe battere maggiormente, o utilizzare delle tende, mentre tenere le finestre aperte nelle ore più ombreggiate.
  • Mantenere l’ambiente in cui si dorme buio e silenzioso.
  • Non utilizzare schermi come quelli di smartphone, tablet e computer appena prima di andare a dormire. La luce emessa, infatti, può ritardare l’addormentamento.

Aria condizionata: accesa o spenta?

Può essere utile impostare il proprio condizionatore in modalità “deumidificatore” oppure utilizzare un ventilatore per raggiungere la temperatura ideale per la stanza in cui si dormirà, che si deve mantenere tra i 20° e i 21°C. Tuttavia in situazioni di particolare afa, in cui risulta impossibile abbandonarsi a un sonno ristoratore, potrebbe rivelarsi opportuno utilizzare il condizionatore, bisogna però sempre tenere presente che anche questo potrebbe comportare un disturbo per il sonno, mantenendolo acceso durante la notte, infatti, si rischia di incorrere in tosse, raffreddore e patologie bronchiali.

Visita specialistica neurologica – disturbi del sonno

La visita specialistica neurologica per disturbi del sonno è utile a diagnosticare le cause dietro la difficoltà a dormire e a trovare il giusto percorso terapeutico.

Ultimo aggiornamento: Luglio 2025
Data online: Agosto 2021

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A cura di cmaddaleni
Le sigarette light sono migliori delle altre?
Data articolo:Tue, 01 Jul 2025 13:58:54 +0000

Negli anni, il concetto di “sigaretta light” ha ingannato molti fumatori, spingendoli a credere che questi prodotti fossero meno dannosi rispetto alle sigarette tradizionali. Il termine stesso, con varianti come “mild” o “low tar”, suggerisce una minore presenza di sostanze nocive, alimentando l’illusione di un fumo più sicuro. Ma cosa c’è di vero in questa convinzione? 

Approfondiamo l’argomento con la dottoressa Licia Siracusano, oncologa e referente del Centro Antifumo presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

Che differenza c’è tra sigarette light e sigarette normali?

Le sigarette light si distinguono da quelle tradizionali per il cosiddetto “basso contenuto di catrame“, determinato dalla presenza di filtri con microfori che favoriscono la ventilazione e, teoricamente, la riduzione delle sostanze nocive inalate. 

I fumatori di sigarette light tendono a compensare la minore concentrazione di nicotina facendo tiri più lunghi e profondi, inalando quindi una quantità di sostanze tossiche molto simile a quella delle sigarette normali. 

Nonostante l’eliminazione ufficiale delle diciture “light” o “mild” dai pacchetti in Europa dal 2003 e negli Stati Uniti dal 2010, il marketing ha continuato a sfruttare colori e nomi evocativi come “gold” o “silver” per indurre i consumatori a ritenere alcuni prodotti meno nocivi di altri.

Le sigarette light fanno meno male di quelle normali?

No, fumare sigarette light non riduce i rischi per la salute. Chi fuma queste sigarette sviluppa le stesse patologie di chi fuma sigarette tradizionali. In particolare, è stato osservato un aumento dei casi di adenocarcinoma polmonare, una delle forme più comuni di tumore ai polmoni. La causa di questo incremento sarebbe legata proprio ai filtri ventilati, che modificano la combustione del tabacco e inducono a inalare il fumo più profondamente, esponendo le aree più periferiche del polmone a una maggiore quantità di sostanze tossiche. Inoltre, la falsa percezione di un rischio minore può portare i fumatori a consumare un numero maggiore di sigarette, aggravando ulteriormente i danni.

Quali malattie rischia chi fuma sigarette light?

Le malattie legate al fumo non risparmiano chi sceglie le sigarette light. Oltre al tumore al polmone, il fumo è un fattore di rischio per numerosi altri tipi di cancro, tra cui quello al pancreas, alla vescica e ai tumori del distretto testa-collo. Inoltre, aumenta non poco il rischio di malattie cardiovascolari, ictus e patologie respiratorie croniche, come la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO).

La presenza di sostanze tossiche come monossido di carbonio, benzene, arsenico e piombo rende ogni sigaretta, indipendentemente dalla dicitura, dannosa per l’organismo.

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A cura di mmaestri
Sindrome dell’alimentazione notturna: sintomi e cause
Data articolo:Tue, 01 Jul 2025 13:47:05 +0000

La sindrome da alimentazione notturna (Night Eating Syndrome) è un disturbo alimentare piuttosto comune, con una prevalenza stimata tra l’1 e l’1,5% nella popolazione generale, che aumenta al 6-16% tra le persone con obesità[1]. Questo disturbo è stato riconosciuto ufficialmente solo di recente, con la sua inclusione nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) nella sezione “disturbi della nutrizione o dell’alimentazione con altra specificazione”. 

La sindrome è caratterizzata da episodi ricorrenti di consumo eccessivo di cibo durante la notte, sia dopo il pasto serale (iperfagia serale) sia dopo il risveglio dal sonno (ingestioni notturne), accompagnati da scarso appetito durante il giorno. Le persone con questa patologia riferiscono di non riuscire a riaddormentarsi senza aver mangiato. Inoltre, sono consapevoli di questi episodi e spesso sono in grado di ricordarli[2].

Approfondiamo l’argomento con il dottor Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare.

Sindrome da alimentazione notturna: i sintomi

Secondo i criteri del DSM-5, i pazienti con sindrome da alimentazione notturna (NES) devono manifestare almeno tre delle seguenti caratteristiche:

  • Episodi ricorrenti di alimentazione notturna che si verificano sia mangiando dopo il risveglio dal sonno che con un consumo eccessivo di cibo dopo il pasto serale.
  • Consapevolezza e ricordo di aver mangiato durante questi episodi.
  • Il comportamento non è causato da influenze esterne, come alterazioni del ciclo sonno-veglia o norme sociali.
  • La persona prova un significativo disagio e/o il suo funzionamento quotidiano risulta compromesso. 
  • Questo pattern alimentare non può essere spiegato da disturbi come il binge eating, altri disturbi alimentari, l’uso di sostanze, disturbi medici o effetti di farmaci.

I sintomi devono essere presenti per almeno tre mesi, accompagnati da marcato disagio o compromissione significativa della qualità della vita.

Altri sintomi rilevanti possono includere:

  • Consumare abitualmente almeno il 25% delle calorie giornaliere dopo cena.
  • Svegliarsi durante la notte per mangiare almeno due volte a settimana.
  • Essere consapevoli degli episodi di consumo notturno e ricordarli successivamente.
  • Avere un desiderio di cibo che si manifesta dopo cena o durante la notte.
  • Provare angoscia o subire effetti negativi sul funzionamento quotidiano a causa degli episodi di alimentazione notturna[2].

Quali sono le cause della sindrome da alimentazione notturna?

Le cause della sindrome da alimentazione notturna non sono ancora del tutto comprese; si ipotizza tuttavia che questo disturbo possa derivare da una desincronizzazione tra umore, sonno, sazietà e i ritmi circadiani legati all’assunzione di cibo. La sindrome è spesso associata a diagnosi psichiatriche concomitanti e comorbilità, in particolare con:

Sebbene presenti punti di contatto con altri disturbi alimentari, la sindrome si distingue per la quantità di calorie assunte durante il giorno e durante gli episodi iperfagici notturni, e per l’assenza di comportamenti compensatori.

Inoltre, la sindrome da alimentazione notturna rappresenta un possibile fattore di rischio per obesità, diabete e altri disturbi metabolici ed endocrini.

Quali sono le possibili conseguenze della sindrome da alimentazione notturna?

Le persone affette da NES tendono a diventare sovrappeso a causa dell’aumento dell’apporto calorico prima di andare a dormire. Questo comportamento alimentare può portare a diverse complicazioni, tra cui:

Senza un adeguato intervento psicoterapeutico, possono svilupparsi ulteriori disturbi psichiatrici. Numerosi studi hanno riscontrato una forte associazione tra sindrome dell’alimentazione notturna e depressione[4].

Quali sono i rimedi della sindrome da alimentazione notturna?

Le opzioni di trattamento per la sindrome da alimentazione notturna comprendono sia approcci farmacologici sia non farmacologici.

Farmacologici:

  • Farmaci SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), poiché il sistema serotoninergico è coinvolto nella regolazione dell’appetito, dell’assunzione di cibo e dei ritmi circadiani.

Non farmacologici:

  • Terapia cognitivo-comportamentale (CBT)
  • Bright-light therapy
  • Rilassamento muscolare progressivo (Progressive Muscle Relaxation).

Le review sul disturbo raccomandano un approccio multidisciplinare, dato che nessun singolo metodo si è dimostrato efficace quanto il loro utilizzo combinato. È quindi fondamentale affidarsi al lavoro sinergico di un’equipe composta da diverse specialità (medico, psicoterapeuta, nutrizionista) per offrire il trattamento più adeguato alle specifiche esigenze del paziente.

Fonti

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A cura di cmaddaleni
Nei: quando fare un controllo
Data articolo:Tue, 01 Jul 2025 13:40:24 +0000

I nei (nevi) sono neoformazioni presenti sulla cute. Alcuni nei sono congeniti, cioè presenti fin dalla nascita, e derivano da fenomeni di crescita cellulare durante lo sviluppo fetale; durante la gravidanza, infatti, alcune cellule di melanociti, originarie dagli stessi tessuti del sistema nervoso centrale, migrano verso la pelle formando i nei. Ci sono poi i nei acquisiti, che si sviluppano successivamente; le loro origini sono ancora oggetto di studio, ma è noto che alcuni possono rappresentare un rischio per la salute.

Perché, allora, bisogna fare il controllo dei nei? E qual è il legame con il melanoma? 

Ne parliamo con il professor Marco Ardigò, Capo Sezione di Dermatologia Oncologica presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano. 

Nei: quali sono i cambiamenti da non sottovalutare? 

I nei, secondo i più recenti dati scientifici, non si trasformano in melanoma, ma piuttosto, in una percentuale minore di casi (intorno al 10-20%) è possibile che un melanoma compaia sopra un neo, provocando un cambiamento visibile del neo stesso (AIM, Melanoma Foundation). Per questo motivo è importante osservare i propri nei e consultare lo specialista dermatologo in presenza di improvvisi cambiamenti come asimmetrie, pigmentazioni e cambiamenti di forma. 

C’è un periodo migliore per il controllo dei nei? 

È consigliabile effettuare i controlli dei nei prima dei mesi estivi, quando la pelle non è abbronzata. In realtà, però, la pigmentazione della pelle dovuta all’esposizione ai raggi solari, pur determinando la comparsa dell’abbronzatura non modifica realmente i nei. La pigmentazione induce cambiamenti fisiologici che uno specialista dermatologo esperto nella diagnosi del melanoma è in grado di riconoscere. Lo specialista valuta quindi i cambiamenti del neo distinguendo quelli indotti dall’esposizione alle radiazioni ultraviolette da alterazioni che potrebbero essere caratteristiche di un melanoma. 

Inoltre, le tempistiche per i controlli non sono uguali per tutti i pazienti. In generale, le persone considerate ad alto rischio devono sottoporsi a controlli almeno una volta all’anno, mentre chi ha già avuto un melanoma potrebbe necessitare di controlli semestrali. In alcuni casi, può essere necessario monitorare una singola lesione melanocitaria sospetta con controlli più frequenti, anche ogni tre mesi. 

Microscopia confocale: cos’è e quando farla 

La microscopia confocale è una metodica avanzata che permette di osservare in dettaglio la struttura della pelle del paziente senza ricorrere a biopsie o interventi chirurgici. Le informazioni che si ottengono con la microscopia confocale sono importanti e, in associazione alla dermatoscopia, aiutano a distinguere un neo benigno da un melanoma, riducendo di circa il 40-45% le asportazioni dei nei che risultano essere innocui.

La microscopia confocale viene impiegata durante la valutazione della pelle quando si identificano lesioni sospette che potrebbero richiedere l’asportazione. Tuttavia, in presenza di sedi anatomiche delicate o di molteplici lesioni, si cerca di evitare interventi chirurgici invasivi, preferendo una diagnosi più precisa e meno invasiva.

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A cura di Valeria Leone
La sigaretta a tabacco riscaldato fa meno male?
Data articolo:Fri, 27 Jun 2025 13:03:18 +0000

L’uso delle sigarette a tabacco riscaldato si sta diffondendo sempre di più, spesso con la percezione che siano meno dannose rispetto alle sigarette tradizionali. 

Approfondiamo l’argomento con la dottoressa Licia Siracusano, oncologa e referente del Centro Antifumo presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

Cosa sono le sigarette a tabacco riscaldato?

Le sigarette a tabacco riscaldato sono dispositivi elettronici che contengono foglie di tabacco, a differenza delle sigarette elettroniche (e-cig) che funzionano con liquidi. Il tabacco viene scaldato a temperature elevate (circa 350 °C, rispetto ai 900 °C delle sigarette tradizionali) senza bruciare direttamente. 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha classificato questi dispositivi come prodotti a tabacco riscaldato (Heated Tobacco Products – HTP). Le aziende produttrici continuano a usare la definizione di prodotti a tabacco riscaldato che non brucia (Heat-Not-Burn – HNB), evitando di evidenziare la presenza del tabacco nel nome.

Contenuto tossico: sono davvero meno dannose?

Le industrie del tabacco hanno dovuto presentare studi per ottenere l’approvazione alla vendita di questi prodotti in diversi Paesi. Secondo le loro ricerche, il vapore prodotto da questi dispositivi conterrebbe nicotina e altre sostanze tossiche in concentrazioni inferiori rispetto alle sigarette tradizionali.

Tuttavia, studi indipendenti hanno fornito risultati discordanti. Una ricerca del governo giapponese, condotta in occasione dei Giochi Olimpici di Tokyo 2020, ha dimostrato che i prodotti a tabacco riscaldato contengono livelli elevati di nicotina e altre sostanze chimiche simili alle sigarette tradizionali, con alcune tossine specifiche presenti solo in questi dispositivi. Inoltre, uno studio pubblicato su JAMA Internal Medicine nel 2017 ha confermato che i composti volatili presenti nelle sigarette tradizionali si ritrovano anche nei prodotti a tabacco riscaldato.

L’OMS sottolinea l’importanza di monitorare le emissioni di questi prodotti, poiché alcune sostanze tossiche sono presenti in quantità superiori rispetto alle sigarette classiche, con effetti sulla salute ancora poco noti.

L’impatto sulla salute delle sigarette a tabacco riscaldato

Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, circa 1,7 milioni di italiani (3,3% della popolazione) utilizzano sigarette a tabacco riscaldato, un numero triplicato tra il 2019 e il 2022. La percezione diffusa è che questi prodotti siano meno dannosi, ma le evidenze scientifiche attuali non confermano questa ipotesi.

Il contenuto elevato di nicotina li rende altamente dipendenti tanto quanto le sigarette tradizionali. Per quanto riguarda il fumo passivo, il loro impatto potrebbe essere inferiore, ma gli studi non sono ancora definitivi. 

Per quanto riguarda il rischio di cancro, i dati sono ancora limitati, dato che questi prodotti sono sul mercato da troppo poco tempo per valutare gli effetti a lungo termine. Una revisione di oltre 100 studi pubblicati tra il 2008 e il 2018 non ha trovato prove di una riduzione del rischio di tumori o malattie cardiovascolari rispetto alle sigarette tradizionali. 

L’FDA (Food and Drug Administration) statunitense, pur avendo autorizzato la commercializzazione di alcuni prodotti a tabacco riscaldato, ha specificato che non esistono prodotti con tabacco sicuri e che questi dispositivi non devono essere considerati meno dannosi.

Le sigarette a tabacco riscaldato possono aiutare a smettere di fumare?

L’uso delle sigarette a tabacco riscaldato non è riconosciuto come un metodo valido per smettere di fumare. Il contenuto di nicotina è simile a quello delle sigarette tradizionali, quindi il rischio di dipendenza rimane elevato. La European Respiratory Society ha emesso un documento ufficiale (position paper) in cui ne sconsiglia l’uso come strumento per ridurre il danno da fumo.

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A cura di mmaestri
Prevenzione cardiovascolare: Humanitas partecipa al progetto nazionale CVrisk-IT
Data articolo:Fri, 27 Jun 2025 12:59:59 +0000

Humanitas partecipa al progetto CVrisk-IT, il più ampio studio italiano dedicato alla prevenzione delle malattie cardiovascolari, promosso dalla Rete Cardiologica IRCCS e finanziato dal Ministero della Salute.

Si tratta di uno studio scientifico randomizzato e controllato di portata nazionale, finanziato dal Ministero della Salute e che vede la partecipazione di ben 17 Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) afferenti alla Rete Cardiologica.

CVRISK-IT ha lo scopo di capire se l’integrazione di informazioni complementari sulla salute (derivanti, per esempio, da immagini radiologiche o dati genetici attraverso la generazione uno “score di rischio genetico”) aiuti a stimare meglio il rischio che una persona sviluppi una malattia cardiovascolare a 10 anni, in modo da fornire consigli sempre più personalizzati per prevenire queste patologie. È previsto che vengano inclusi 30.000 volontari sani. Humanitas, in qualità di IRCCS, contribuirà attivamente accogliendo i cittadini che parteciperanno allo studio e offrendo la propria esperienza clinica e di ricerca e fungendo da “hub” di raccolta dati di una rete che include come “spoke” strutture cardiologiche universitarie del Mezzogiorno.

Come partecipare

I cittadini interessati possono iscriversi gratuitamente attraverso il sito ufficiale della Rete Cardiologica IRCCS: https://www.cvrisk.it/cvrisk/manifestazione-interesse. La partecipazione prevede una valutazione del rischio cardiovascolare personalizzata, con l’obiettivo di identificare precocemente eventuali fattori di rischio e adottare strategie preventive mirate.

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A cura di cmaddaleni
Vaccini: quali fare prima di un viaggio all’estero
Data articolo:Fri, 27 Jun 2025 09:49:36 +0000

Viaggiare e scoprire nuovi luoghi, magari lontani da dove viviamo e diversi per caratteristiche e cultura, può essere fonte di meraviglia e svago, ma è sempre opportuno informarsi con anticipo sulle vaccinazioni necessarie e su quelle che è consigliato effettuare prima della partenza. Ci sono malattie, anche piuttosto severe, endemiche in alcuni Paesi o fasce climatiche, e le condizioni di salute generale possono variare da persona a persona, rendendo opportune precauzioni maggiori. Da vettori di virus come le zanzare o le zecche, ai cambiamenti climatici, che rendono la presenza di questi insetti più pervasiva, alle acque contaminate, sono svariati i fattori infettivi a cui prestare attenzione quando si pianifica un viaggio. 

Quali vaccinazioni fare? Ne parliamo con la professoressa Elena Azzolini, Vice Direttore Sanitario del Gruppo Humanitas. 

Colera 

Il colera viene trasmesso assumendo acqua o alimenti contaminati da materiale fecale infetto. In particolare la trasmissione di questa malattia si verifica in Paesi con condizioni igienico-sanitarie non ottimali e impianti fognari poco sviluppati, in cui l’acqua non è generalmente considerata potabile. In particolare, infatti, la trasmissione di colera si verifica consumando cibi crudi o non sufficientemente cotti, in particolare i frutti di mare. 

Nonostante il rischio di contrarre il colera possa essere ridotto seguendo adeguate norme igieniche e assumendo precauzioni per evitare di consumare alimenti o bevande che potrebbero risultare contaminate, si raccomanda in ogni caso la vaccinazione anti-colera per chi viaggia in zone a rischio a scopo lavorativo o come operatore sanitario. Il vaccino contro il colera viene somministrato oralmente in 2 dosi a 7-40 giorni di distanza l’una dall’altra e contiene cellule intere uccise di V. cholerae 01 in associazione a una subunità B ricombinante di tossina colerica (WC/rBS). 

Il vaccino inattivato contro il colera si somministra per via orale in due dosi, a distanza di 7–40 giorni l’una dall’altra, e contiene cellule uccise di Vibrio cholerae O1 associate a una subunità B ricombinante della tossina colerica (WC/rBS). Più frequentemente si utilizza il vaccino vivo attenuato, anch’esso somministrato per via orale, in dose unica almeno 10 giorni prima della partenza, confezionato in bustine da sciogliere in acqua.

Dengue 

La dengue è una patologia di origine virale che si può contrarre soprattutto nelle aree subtropicali e tropicali. Provocata da quattro virus (Den-1, Den-2, Den-3 e Den-4), la dengue viene trasmessa nella maggior parte dei casi tramite punture di zanzare infette delle specie Aedes aegypti e Aedes albopictus. Nonostante il più delle volte la dengue si risolva senza conseguenze gravi, in alcuni casi possono verificarsi complicanze severe, anche neurologiche, e in alcuni casi fatali. Per questo è fondamentale che le persone a rischio adottino adeguate misure preventive per evitare il contatto con le zanzare vettore del virus, in particolar modo utilizzando adeguati repellenti.

La vaccinazione contro la Dengue è altamente raccomandata per chi ha già avuto la malattia in passato. Il vaccino contro la dengue è tetravalente, dunque vale per tutti i sierotipi del virus, ed è un vaccino vivo attenuato. L’agente infettivo presente nel vaccino, quindi è reso non patogeno e non può trasmettere la malattia. ll vaccino è consigliato ai viaggiatori verso zone in cui la dengue è endemica, in particolare, è raccomandato soprattutto per viaggi lunghi o ripetuti. Si somministra a partire dai 4 anni d’età in 2 dosi a distanza di 3 mesi l’una dall’altra, con un’iniezione sottocutanea nella parte superiore del braccio. 

Encefalite giapponese 

L’encefalite giapponese è una patologia endemica in varie aree dell’Asia, come il Giappone, il Pakistan e l’India, provocata da un virus del genere flavivirus che viene trasmesso all’uomo dalle zanzare. La probabilità di contrarre l’encefalite giapponese è piuttosto bassa, in particolare quando si parla di viaggi brevi e localizzati in aree urbane, ma la percentuale di rischio può variare in base alla stagione in cui si viaggia, le attività praticate e le località visitate, oltre che per il tempo trascorso in zona. 

Si consiglia quindi la vaccinazione contro l’encefalite giapponese soprattutto alle persone che viaggiano nelle zone in cui la malattia è endemica e passeranno lungo tempo all’aperto, svolgendo ad esempio attività quali trekking, campeggio o pesca, durante la stagione di trasmissione e nei periodi di irrigazione dei terreni agricoli. Il vaccino anti-encefalite giapponese è un vaccino inattivato che si può effettuare a partire dai 2 mesi d’età. Il vaccino viene somministrato per via intramuscolare in 2 dosi a 28 giorni di distanza l’una dall’altra, o con schema rapido a 7 giorni di distanza (per gli adulti 18-65 anni). 

Meningo-encefalite da zecca

La meningo-encefalite da zecca è una patologia virale acuta, endemica in Italia e in altri Paesi di Europa settentrionale e centro orientale (la maggior incidenza di casi clinici è a oggi registrata in Stati Baltici, Slovenia e Russia) che interessa il sistema nervoso centrale e che è causata da un virus del genere flavivirus trasmesso dal morso di una zecca. Nel 70% delle persone interessate l’infezione non comporta lo sviluppo di sintomi rilevanti, mentre nel 30% dei casi può provocare sintomi più importanti e, raramente (10-20% dei casi con sintomi rilevanti) conseguenze al sistema nervoso centrale, raramente con esito fatale. 

Il vaccino contro la meningo-encefalite da zecca è consigliato ai soggetti considerati ad alto rischio, ossia a chi vive o soggiorna in zone rurali o forestali fino a 1400 m in cui la patologia è endemica, e che pratica attività che potrebbero comportare il contatto con zecche (come contadini, campeggiatori o escursionisti). Il vaccino contiene il virus inattivato e viene somministrato per via intramuscolare in 3 dosi, con un tempo di 4-12 settimane tra la prima e la seconda dose e di 9-12 mesi tra la seconda e la terza dose. La protezione non è permanente per cui è indicato effettuare richiami ogni 3-5 anni se si frequentano zone a rischio.

Epatite A 

L’epatite A è un’infezione virale del fegato provocata dal virus HAV. Si trasmette principalmente per via oro-fecale, ossia attraverso l’ingestione di cibo o acqua contaminati da feci infette, oppure tramite il contatto diretto con una persona infetta, soprattutto in condizioni di scarsa igiene.

Le persone che viaggiano verso aree in cui questa patologia è endemica dovrebbero seguire adeguate precauzioni igieniche: in particolare è consigliato bere solo acqua in bottiglia ed evitare di consumare ghiaccio e mangiare frutti di mare o cibi non cotti. È raccomandato anche seguire una scrupolosa igiene personale. Il vaccino è consigliato a tutte le persone che viaggiano in Paesi in cui l’epatite A è endemica e soggetti che fanno parte di categorie a rischio, come le persone con epatopatia cronica o coagulopatie severe, persone tossicodipendenti, nonché persone che appartengono a categorie professionali a rischio come coloro che lavorano allo smaltimento di rifiuti solidi e liquami, coloro che potrebbero entrare a contatto con il virus in strutture laboratoristiche o chi lavora con primati che potrebbero essere infettati dal virus. 

Nel nostro paese sono disponibili vaccini anti-epatite A a virus inattivato, somministrati sia in formulazione monocomponente, sia in associazione al vaccino anti-epatite B. La somministrazione del vaccino avviene in 2 dosi per via intramuscolare a distanza di 6-12 mesi tra una dose e l’altra

Epatite B 

L’epatite B è una patologia virale che si trasmette principalmente attraverso il contatto con sangue infetto o fluidi corporei, come sperma e liquidi vaginali, o per via perinatale da madre a figlio. Il vaccino contro l’epatite B viene somministrato in Italia a tutti i nuovi nati secondo il calendario vaccinale in 3 dosi a 3, 5 e 11 mesi di vita. Questo vaccino si somministra in genere nella sua forma esavalente, che protegge anche da difterite, poliomielite, pertosse, tetano e Haemophilus influenzae B. Negli adolescenti e negli adulti che non sono stati vaccinati alla nascita il vaccino anti-epatite B si effettua a 3 mesi tra la prima e la seconda dose e a 6 mesi tra la seconda e la terza dose. 

Per le persone non vaccinate è consigliato – oltre a richiedere al proprio medico curante informazioni sul vaccino o immediata assistenza in caso si sospetti di essere entrati a contatto con il virus – seguire alcune norme di igiene personale. In particolare usare il preservativo durante i rapporti sessuali, evitare lo scambio di oggetti personali come spazzolino da denti, forbicine, tagliaunghie e rasoi, evitare lo scambio di siringhe, evitare di effettuare tatuaggi o piercing in locali dove non sono assicurate adeguate norme igieniche. 

Febbre gialla 

La febbre gialla è provocata da un virus della famiglia flavivirus, ha come vettore di trasmissione le zanzare e spesso risulta fatale se contratta da persone non vaccinate. Per questo motivo la vaccinazione è consigliata se si deve viaggiare in aree considerate a rischio, anche basso, soprattutto se si soggiorna per tempo prolungato in aree rurali. In particolare, la febbre gialla è endemica in alcune regioni dell’Africa centrale, occidentale e orientale e del Sud America e vi sono Paesi che all’ingresso (o anche solo per il transito aeroportuale) richiedono un obbligatorio certificato di avvenuta vaccinazione contro questa patologia: il certificato è considerato valido solo se corrispondente al modello approvato dall’OMS e rilasciato da un Centro vaccinale autorizzato. Tuttavia, anche se uno specifico Paese non richiede il certificato di vaccinazione, questo non significa necessariamente che non vi siano rischi di trasmissione, per questo è opportuno consultare le indicazioni del Ministero della Salute e consultare un centro vaccinazioni internazionali al momento della pianificazione del viaggio. 

Il vaccino contro la febbre gialla comporta la somministrazione per via sottocutanea o intramuscolare di virus vivo attenuato. La vaccinazione si effettua in un’unica dose a partire dai 9 mesi di vita, è valida per sempre e va eseguita almeno 10 giorni prima della partenza

Febbre tifoide 

La febbre tifoide è una patologia endemica in alcuni Paesi di Asia orientale e meridionale, come India, Bangladesh e Pakistan, Medio Oriente, Africa, America centrale e Caraibi. La febbre tifoide è causata dall’infezione di un batterio (Salmonella typhi) e si trasmette attraverso l’assunzione di cibi o acqua contaminati da materiale fecale infetto. Per questo motivo è più comune contrarre la malattia in paesi in cui le condizioni igieniche risultano carenti e vi è uno scarso accesso a fonti d’acqua sicure. 

Sono disponibili due tipologie di vaccini contro la febbre tifoide:

  • il vaccino orale Ty21a, un vaccino vivo somministrato in capsule per via orale in 3 dosi da assumere a giorni alterni.
  • il vaccino capsulare polisaccaridico (antigene Vi), un vaccino composto da antigeni del polisaccaride della capsula del batterio che si somministra per via intramuscolare in una sola dose.

Il vaccino contro la febbre tifoide comporta una protezione dopo circa 10-14 gg e per la durata di circa tre anni. Non garantisce copertura per la febbre paratifoide, per cui non è disponibile una vaccinazione: per questo motivo durante i viaggi in paesi in cui la malattia è endemica è importante seguire sempre adeguate norme igieniche e consumare solo alimenti cotti e serviti caldi e frutta e verdura lavata con attenzione con acqua sicuramente pulita. Da non consumare invece la frutta e la verdura la cui buccia risulta alterata e il ghiaccio. Anche per quanto riguarda le bevande, è opportuno bere solo bevande in contenitori sigillati in fabbrica

Meningite meningococcica 

La meningite meningococcica è provocata da un batterio, il meningococco (Neisseria meningitidis), che si trasmette attraverso le goccioline emesse con il respiro, la tosse, gli starnuti e le secrezioni nasali da persone infette. Nonostante in molti casi le infezioni da meningococco risultino asintomatiche, possono anche provocare meningite, una patologia severa che può avere esiti anche fatali. L’infezione è più comune nei bambini sotto i 5 anni, in particolar modo nel primo anno di vita, ma può colpire a qualsiasi età: il vaccino è quindi consigliato per tutti i nuovi nati e per gli adulti che ancora non si sono vaccinati. In particolare si consiglia l’immunizzazione con il vaccino quando si programma un viaggio in Paesi ritenuti a rischio, in particolare quelli dell’Africa subsahariana.

Esistono 13 diversi sierogruppi di meningococco, ma ad oggi sono sei quelli che causano meningite e altre malattie gravi: più frequentemente A, B, C, W e Y e, molto più raramente, soprattutto in Africa, X. In Italia e in Europa, i sierogruppi B e C sono la causa più frequente di malattia invasiva.

Sono due i vaccini antimeningococcici disponibili, di cui il quadrivalente che riunisce 4 sierogruppi (A, C, W, Y) ed il vaccino con sierogruppo B:

  • vaccino coniugato tetravalente contro i meningococchi di tipo A, C, Y, W135 (Mcv4): si somministra per via intramuscolare ed è raccomandato a tutti i nuovi nati a partire da 12 mesi compiuti con 1 dose a cui viene fatta seguire una dose di richiamo a partire dai 12 anni. Questo vaccino è consigliato in caso di viaggi in Paesi a rischio.
  • vaccino coniugato contro il meningococco B: si somministra per via sottocutanea ed è consigliato a tutti i nuovi nati con 2 dosi nel primo anno di vita e 1 dose di richiamo nel secondo anno.

Rabbia 

La rabbia è una zoonosi provocata da un virus della famiglia dei rabdovirus. È una malattia endemica in Africa, Asia e America Latina, che si trasmette dal contatto diretto con la saliva di cani, pipistrelli, volpi o altri animali selvatici infetti: la modalità più comune di trasmissione è tramite morsi, ferite o graffi di animali infetti. La rabbia dalla comparsa dei sintomi ha un decorso severo e infausto. 

Il vaccino contro la rabbia è raccomandato a tutte le persone che stanno programmando un viaggio nelle aree in cui la malattia è endemica. Il vaccino è composto dal virus inattivato e nella fase di pre-esposizione viene somministrato per via intramuscolare o per via intradermica in 2 dosi, con la seconda tra il 7° e il 28° giorno dalla prima. Una terza dose è consigliata solo per chi presenta un rischio più elevato di esposizione, come veterinari o persone con sistema immunitario compromesso.

In caso di post-esposizione al virus della rabbia, è fondamentale intervenire tempestivamente con un’accurata pulizia e disinfezione della ferita, seguite dalla somministrazione del vaccino entro 24 ore. Il numero di dosi necessarie dipende dal fatto che la persona abbia o meno già completato un ciclo di vaccinazione pre-esposizione: in chi è già vaccinato, sono sufficienti 2 dosi, mentre nei soggetti non precedentemente vaccinati il ciclo completo prevede 4 o 5 dosi. A seconda della gravità dell’esposizione, può essere raccomandata anche la somministrazione di immunoglobuline antirabbiche per garantire una protezione immediata. 

Ultimo aggiornamento: Giugno 2025
Data online: Luglio 2024

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A cura di cmaddaleni
Obesità: una sfida globale. Esperti internazionali a Rozzano per fare il punto
Data articolo:Tue, 24 Jun 2025 07:55:11 +0000

64mila persone in Italia perdono la vita, ogni anno, per le conseguenze dirette dell’eccesso ponderale, inteso sia come sovrappeso che come obesità. Il costo stimato sul Sistema Sanitario Italiano è di 4,5 miliardi di Euro. Dati che, a livello mondiale, si convertono in 5 milioni di decessi, pari al 9% del totale.

È in questo contesto che si inserisce il congresso “Ri-evoluzione metabolica: nuove frontiere nella gestione dell’obesità”, in programma il 27 e 28 giugno 2025 presso il Centro Congressi Humanitas di Rozzano. Due giornate di confronto scientifico, promosse dal Centro per le Malattie Metaboliche e della Nutrizione di Humanitas, diretto dal Prof. Roberto Vettor, che vedranno la partecipazione dei principali esperti nazionali e internazionali.

«L’obiettivo del congresso – sottolineano i responsabili scientifici Dott. Marco Mirani e Prof. Roberto Vettor – è fornire ai clinici strumenti aggiornati e multidisciplinari per affrontare una condizione cronica sempre più diffusa, che richiede una presa in carico personalizzata e continua, al di là della semplice perdita di peso».

Il congresso vuole essere anche un momento di riflessione culturale, oltre che scientifica, su come affrontare una condizione che, oltre all’impatto clinico, comporta un forte stigma sociale e psicologico.

Il programma affronta l’obesità in tutte le sue dimensioni: dalla fisiopatologia alla clinica, dalla genetica alle comorbilità metaboliche, cardiovascolari, epatiche e renali, dall’uso dell’Intelligenza Artificiale nell’analisi dei big data alle più moderne opzioni terapeutiche, che spaziano dalla nutrizione alla chirurgia bariatrica, fino ai nuovi farmaci poliagonisti progettati per attivare simultaneamente più recettori ormonali coinvolti nella regolazione del comportamento alimentare e del metabolismo energetico, ma con importanti estensioni benefiche sulle malattie cardiovascolari, epatiche e sulla malattia diabetica.

Non mancheranno sessioni dedicate alla differenza di genere, alla gestione dell’obesità nei pazienti con diabete di tipo 1 e 2, e alle implicazioni cliniche delle obesità rare che rappresentano un modello geneticamente determinato che ci aiuta a comprendere le forme più comuni dell’obesità. Un elemento emergente è quello della obesità sarcopenica che è una condizione in cui all’aumento della massa grassa, in particolare in sede ectopica, corrisponde una riduzione di quella muscolare impattando sulla qualità e aspettativa di vita, soprattutto negli anziani e nei pazienti affetti da altre cronicità.

L’evento rientra nell’impegno di Humanitas a fronteggiare l’obesità come sfida di salute pubblica, puntando su Ricerca scientifica, innovazione tecnologica e approccio integrato al paziente. Per questo è nato il Centro per le Malattie Metaboliche e della Nutrizione di Humanitas, che si occupa della presa in carico di persone con obesità e patologie correlate, grazie a un’équipe multidisciplinare e a percorsi personalizzati nei Centri medici Humanitas Medical Care diffusi sul territorio.

Questa organizzazione è stata riconosciuta come Centro Collaborativo EASO dall’European Association for the Study of Obesity. La rete riunisce centri accreditati da tutta Europa per contribuire allo sviluppo di linee guida condivise su diverse tematiche legate alla gestione dell’obesità, attraverso il confronto di competenze.

Per informazioni e iscrizioni: https://www.iec-srl.it/index.php/it/eventi/corsi-residenziali/residenziali/2025/981-ri-evoluzione-metabolica-nuove-frontiere-nella-gestione-dell-obesita-2

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A cura di cmaddaleni
Igiene orale non invasiva: il trattamento GBT
Data articolo:Thu, 19 Jun 2025 09:08:44 +0000

La Guided Biofilm Therapy (GBT) è un trattamento all’avanguardia per la salute orale, innovativo, efficace e confortevole, ora disponibile presso il Dental Center IRCCS Istituto Clinico Humanitas, parte del gruppo Denti e Salute. 

Perché la GBT è la scelta migliore per la salute orale?

La GBT si distingue per la sua capacità di rimuovere in modo mirato e profondo il biofilm batterico (la causa principale di carie e malattie gengivali) senza il fastidio e l’invasività tipica dei metodi convenzionali, oltre che per il suo approccio confortevole e minimamente invasivo. 

Inoltre, la localizzazione del biofilm è una fase chiave che spesso viene trascurata nei metodi tradizionali. Grazie alla GBT, è possibile rimuovere il biofilm in modo preciso e mirato, riducendo il rischio di accumulo in futuro.

Come funziona la GBT?

La Guided Biofilm Therapy (GBT) è un protocollo strutturato in 8 fasi fondamentali che assicurano una pulizia orale completa e confortevole:

  1. Valutazione della salute orale: il dentista esamina la bocca del paziente per personalizzare il trattamento.*
  2. Localizzazione del biofilm: grazie a un colorante speciale, il biofilm viene reso visibile, per rimuoverlo in modo preciso e mirato.
  3. Motivazione del paziente: vengono forniti consigli personalizzati per migliorare l’igiene orale quotidiana, per mantenere i risultati nel tempo.
  4. Un delicato getto di aria, acqua e polvere rimuove biofilm, macchie e tartaro recente in modo confortevole e rapido.
  5. Con uno strumento professionale vengono raggiunte le tasche gengivali più profonde per una pulizia completa e delicata.
  6. Il tartaro residuo viene rimosso in maniera precisa e mirata tramite ultrasuoni, in modo delicato.
  7. Controllo finale: il dentista verifica che tutto il biofilm, tartaro e macchie siano stati completamente rimossi.
  8. Richiamo: viene programmato un appuntamento successivo per mantenere la salute orale nel tempo.

I vantaggi della GBT

  • Igiene profonda e confortevole: con la tecnologia avanzata, la GBT rimuove il biofilm e il tartaro in modo molto più efficace rispetto ai metodi tradizionali. Questo trattamento è particolarmente vantaggioso per la salute orale a lungo termine.
  • Comfort ottimale: il protocollo GBT è minimamente invasivo e confortevole. I pazienti riportano una riduzione significativa del disagio rispetto ai metodi convenzionali di pulizia.
  • Migliore esperienza per il paziente: oltre alla rimozione completa del biofilm, la GBT riduce la percezione di fastidio e migliora l’efficacia rispetto alle tecniche tradizionali, rendendo l’esperienza odontoiatrica più piacevole.
  • Evidenza clinica: studi e feedback raccolti da oltre 13.000 studi odontoiatrici certificati GBT confermano l’efficacia di questo protocollo, con un 94% di pazienti che lo preferiscono rispetto ai metodi convenzionali, grazie anche alla riduzione dei tempi e al comfort durante il trattamento.

L’innovativa tecnologia GBT è disponibile presso il Dental Center IRCCS Istituto Clinico Humanitas, Via Alessandro Manzoni 56, Rozzano (Building 2, Piano 1).

Contatti

+39 02 82246868
cup-odonto.ich@humanitas.it
https://www.dentisalute.it/trattamenti/cura/guided-biofilm-therapy/

Fonti

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A cura di cmaddaleni
Distimia: i sintomi e come distinguerla dalla depressione
Data articolo:Wed, 18 Jun 2025 12:34:45 +0000

I disturbi dell’umore sono condizioni psichiatriche caratterizzate da alterazioni significative e persistenti del tono dell’umore, che possono incidere profondamente sulla qualità della vita della persona. Questi disturbi, come la depressione maggiore, possono compromettere le relazioni sociali, la vita lavorativa e altre aree del funzionamento quotidiano, spesso associandosi a disabilità e coesistendo con altri disturbi psichiatrici o patologie croniche. Tra i disturbi dell’umore rientra anche la distimia, o disturbo depressivo persistente, caratterizzata da sintomi depressivi cronici e di lunga durata.

Ne parliamo con il dottor Francesco Cuniberti, psichiatra presso Humanitas San Pio X.

Che cos’è la distimia?

La distimia, attualmente inclusa come sottotipo del disturbo depressivo persistente nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), è una forma cronica di depressione caratterizzata da sintomi meno intensi rispetto alla depressione maggiore, ma persistenti nel tempo. Questa “nuova” diagnosi combina le precedenti definizioni di disturbo distimico e di depressione maggiore cronica, riflettendo meglio la natura prolungata del disturbo. La differenza principale tra distimia e depressione maggiore riguarda l’intensità dei sintomi: nella distimia sono più lievi. Inoltre la distimia richiede una durata minima di almeno due anni, durante i quali non devono verificarsi periodi senza sintomi superiori a due mesi consecutivi.

La distimia ha una prevalenza stimata tra il 2% e il 5% della popolazione generale e colpisce più frequentemente la popolazione femminile, con un esordio spesso risalente all’adolescenza o alla prima età adulta.

Distimia: quali sono i sintomi

La distimia, pur essendo una forma cronica di depressione, presenta sintomi meno intensi rispetto alla depressione maggiore, ma ha un impatto importante sulla qualità della vita delle persone che ne soffrono. 

Per essere diagnosticata, la distimia deve persistere per almeno due anni, durante i quali la persona manifesta un umore depresso per la maggior parte del giorno e quasi tutti i giorni. 

Tra i sintomi più comuni ci sono:

  • Umore depresso persistente
  • Mancanza di interesse o piacere nelle attività quotidiane
  • Bassa autostima
  • Difficoltà di concentrazione o a prendere decisioni
  • Sensazione di disperazione
  • Alterazioni dell’appetito (aumento o diminuzione)
  • Disturbi del sonno (insonnia o ipersonnia)
  • Fatica costante e mancanza di energia.

Questi sintomi, pur non raggiungendo l’intensità della depressione maggiore, influenzano la vita sociale, lavorativa e relazionale delle persone, riducendo notevolmente la loro qualità di vita. Inoltre, chi soffre di distimia può anche vivere episodi di depressione maggiore, in cui i sintomi si aggravano temporaneamente. Questo fenomeno è conosciuto come “doppia depressione”.

Come si distingue la distimia dalla depressione?

A differenza della depressione maggiore, che si presenta con episodi acuti e intensi, la distimia è caratterizzata da un andamento persistente e cronico, senza remissioni degne di nota. La natura duratura della distimia porta spesso chi ne soffre a considerare i sintomi come una parte normale del proprio carattere, piuttosto che come una condizione medica.

Un’altra differenza sta nella percezione del tempo: la persona con distimia vive una sensazione di stallo e tende a ricordare pochi momenti di benessere o gioia. Questo stato continuo impedisce di guardare al futuro con ottimismo. Inoltre, le persone con distimia tendono a rimuginare frequentemente su eventi passati o problemi attuali, creando un circolo vizioso che contribuisce a mantenere i sintomi depressivi e a peggiorare l’umore.

Come curare la distimia?

La diagnosi di distimia può essere difficile poiché molte persone convivono con questo disturbo senza cercare aiuto, spesso percependo i sintomi come una parte del proprio carattere. Essendo una forma di depressione cronica meno intensa, la distimia tende a passare inosservata, anche agli occhi dei professionisti. I pazienti possono sembrare “funzionali”, mantenendo un’apparente normalità nelle attività quotidiane, anche se con difficoltà. Questo aspetto contribuisce alla sottovalutazione del disturbo, con il rischio che, se non trattato, possa evolvere in depressione maggiore. 

Una volta diagnosticata, la distimia viene trattata con approcci simili a quelli della depressione maggiore. Psicoterapia e farmacoterapia sono i pilastri principali del trattamento. La psicoterapia, soprattutto la terapia cognitivo-comportamentale, può aiutare a modificare i pensieri negativi e le abitudini di comportamento che perpetuano i sintomi e a favorire una ripresa del funzionamento. 

I farmaci antidepressivi come gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), sempre sotto prescrizione e controllo medico, possono aiutare ad affrontare la sintomatologia depressiva.

Anche gli interventi sullo stile di vita possono fare la differenza: l’esercizio fisico regolare può migliorare l’umore e ridurre i sintomi depressivi, mentre una dieta equilibrata e una sana routine aiutano a gestire i sintomi nel lungo termine.

Ultimo, ma non per importanza, è avere una rete di supporto solida, composta da amici e familiari, in grado di migliorare notevolmente il successo del trattamento.

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A cura di cmaddaleni
L’abbronzatura artificiale fa male alla pelle?
Data articolo:Tue, 17 Jun 2025 07:55:16 +0000

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha riconosciuto i lettini solari come procedure pericolose, in quanto aumentano il rischio di sviluppare tumori della pelle. I lettini solari amplificano il rischio di tumori cutanei perché, in tempi brevi, la pelle riceve elevate quantità di energia e viene sottoposta a uno stress significativo e a uno shock importante, che possono danneggiare le cellule cutanee. 

Ne parliamo con il professor Marco Ardigò, Capo Sezione di Dermatologia Oncologica presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano. 

Perché l’abbronzatura artificiale è rischiosa

Lettini e lampade solari sono strumenti che espongono la pelle a radiazioni ultraviolette, analoghe a quelle dei raggi solari. Tuttavia, esporre la cute a una quantità eccessiva di raggi UV, che siano questi provenienti dal sole o da fonti artificiali, può aumentare il rischio di insorgenza di tumori della pelle, melanoma e non melanoma (tra cui il carcinoma basocellulare e il carcinoma squamocellulare). 

Un ulteriore rischio legato all’uso dei lettini solari è l’invecchiamento precoce della pelle. I raggi UV, infatti, determinano il fotoinvecchiamento, un processo di degenerazione della cute che dipende dall’incidenza delle radiazioni ultraviolette sulle cellule della pelle e sulle strutture dermiche più profonde. Questo processo porta alla formazione di rughe, macchie solari, lentigo solare e aumenta la secchezza cutanea. Inoltre, anche con l’abbronzatura artificiale possono verificarsi disturbi oculari, come infiammazione della cornea, degenerazione maculare e cataratta precoce.

Le indicazioni scientifiche

Non è solo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a mettere in guardia dal ricorso all’abbronzatura artificiale: la stessa indicazione è espressa dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (AIRC) classifica le procedure per l’abbronzatura artificiale come cancerogene. 

A queste posizioni si aggiunge quella della Commissione Europea SCHEER, incaricata di valutare i rischi provocati dall’abbronzatura artificiale. Dalle sue valutazioni, infatti, emerge che non ci siano limiti sicuri di esposizione alle radiazioni ultraviolette provenienti dai lettini solari. Come i raggi solari, anche le radiazioni UV emesse dai dispositivi per l’abbronzatura artificiale concorrono a determinare la comparsa di mutazioni nelle cellule, aumentando il rischio di sviluppare tumori cutanei. Il rischio di sviluppare un tumore aumenta in modo significativo se l’esposizione eccessiva ai raggi UV avviene durante la giovinezza. Per questo motivo, è fortemente sconsigliato l’uso dell’abbronzatura artificiale da parte degli adolescenti.

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A cura di cmaddaleni
Sole: perché proteggere la pelle con la crema solare è fondamentale
Data articolo:Mon, 16 Jun 2025 07:17:37 +0000

L’esposizione ai raggi del sole può essere benefica per una serie di fattori, dalla sintesi della vitamina D all’aumento della serotonina che regola il tono dell’umore e il ciclo sonno-veglia. Tuttavia, i raggi UVA, che comportano l’invecchiamento cutaneo, e i raggi UVB, che provocano le scottature, sono importanti fattori di rischio per le patologie della pelle, alcune molto gravi, come il melanoma. Per questo motivo proteggere la pelle dai raggi solari è sempre importante, in particolare nelle stagioni più calde, quando l’intensità della luce solare è maggiore. Il principale strumento che abbiamo a disposizione per la protezione della pelle, oltre ad alcune accortezze come proteggersi con cappelli e vestiti coprenti e non uscire nelle ore in cui i raggi del sole sono più intensi, è l’uso corretto della crema solare.

Ne parliamo con il professor Marco Ardigò, Capo Sezione di Dermatologia Oncologica presso l’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

I rischi del sole per la pelle

I rischi di un’esposizione eccessiva al sole possono manifestarsi sia a breve sia a lungo termine. A breve termine, si possono verificare scottature (eritema solare) e ustioni, caratterizzate da arrossamento della pelle, prurito, desquamazione, oltre a dolore, edema e forte infiammazione. A lungo termine, un’esposizione continua e scorretta ai raggi solari può comportare problemi più importanti. Oltre all’invecchiamento precoce della cute, infatti, esposizione continuativa e senza protezione al sole e scottature ripetute in giovane età, sono un fattore di rischio conclamato per l’insorgenza di melanoma. Il melanoma è un tumore particolarmente aggressivo che colpisce i melanociti, le cellule della pelle responsabili della produzione di melanina, il pigmento che dà colore alla pelle.

L’eccessiva e scorretta esposizione ai raggi solari, in particolare durante infanzia, è il principale fattore di rischio di insorgenza di melanoma, quindi la protezione della pelle è particolarmente importante dal punto di vista della prevenzione. Altri fattori associati allo sviluppo di melanoma sono: predisposizione familiare, fototipo basso e presenza di un numero elevato di nei. Anche le persone con fototipo scuro o con pochi nei devono prestare attenzione all’eccessiva esposizione al sole, perché l’abbronzatura e le scottature aumentano comunque il rischio di insorgenza di tumori cutanei.

Altri tumori maligni della pelle, meno aggressivi rispetto al melanoma ma il cui rischio di insorgenza aumenta in relazione all’esposizione ai raggi solari, sono gli epiteliomi squamocellulari e i basaliomi o tumori basocellulari. I basaliomi sono i tumori della pelle più comuni, interessano soprattutto le persone che per lavoro passano la maggior parte del tempo all’aperto sotto il sole, e sono tumori a crescita localizzata e lenta, che vengono quindi in genere individuati e trattati a uno stadio ancora precoce. Anche i tumori squamocellulari sono più frequenti rispetto ai melanomi, con un’incidenza circa tre volte superiore, ma presentano un’aggressività minore.

Come scegliere la crema solare

In generale si dovrebbe evitare l’esposizione ai raggi solari nelle ore centrali della giornata, tra le 12 e le 16, ed è opportuno utilizzare occhiali da sole con filtro UV, cappello e vestiti in tessuti fotoprotettivi e mantenersi sempre idratati. Oltre a questi accorgimenti è però fondamentale utilizzare sempre una protezione solare adeguata. 

Per scegliere la crema solare bisogna più adatta è importante controllare l’SPF (Fattore di Protezione Solare) riportato sulla confezione, che deve essere 50+: più l’SPF è alto, infatti, maggiore è la protezione dai raggi UV. La scelta del livello di SPF si basa anche sul tempo che la pelle impiega ad abbronzarsi con l’utilizzo della crema. Un SPF alto aiuta anche l’abbronzatura, che è più duratura e sana, senza compromettere la colorazione della pelle. Infine, è consigliabile verificare che la crema offra protezione sia contro i raggi UVA sia contro i raggi UVB, preferendo prodotti che garantiscono una protezione completa.

Ogni quanto va messa la crema solare?

Bisognerebbe usarla sempre, non solo, quindi, quando si prende il sole nei giorni di vacanza, ma anche in città (sono in commercio anche creme idratanti con SPF incorporato). Si raccomanda di applicarla più volte al giorno, ogni 2-3 ore: la crema solare che si usa, infatti, è generalmente inferiore alla quantità di cui la cute avrebbe bisogno (e anche per questo, quindi, è più utile usare una crema a SPF alto). L’azione protettiva della crema solare può essere ridotta dalla sudorazione e dall’esposizione all’acqua, come quella del mare o della piscina. Tuttavia, sul mercato sono disponibili creme solari resistenti all’acqua, specificamente formulate per mantenere l’efficacia anche in queste condizioni.

La crema solare va messa durante tutto il periodo di esposizione al sole, anche se la pelle è già abbronzata. L’abbronzatura stessa rappresenta infatti un segnale di danno alla pelle, poiché la pigmentazione aumenta in risposta ai danni causati dai raggi ultravioletti. Per questo motivo è importante applicare la fotoprotezione anche quando si è già abbronzati, senza trascurare quegli effetti che non sono visibili (invecchiamento precoce e rischio di danni cellulari) come può esserlo invece un eritema.

Inoltre, sebbene le nuvole possano filtrare parzialmente le radiazioni ultraviolette, è comunque importante applicare la crema solare anche in giornate nuvolose. Infatti, anche in assenza di calore percepito, le radiazioni UV sono presenti e possono danneggiare la pelle.

Crema solare e abbronzatura

Come abbiamo detto, l’abbronzatura è espressione di un danno cutaneo. Con la crema solare la pelle si abbronza lo stesso e in maniera più stabile, perché la pelle si desquama in tempi più lunghi e quindi l’abbronzatura persiste per più tempo. È importante sottolineare, comunque, che l’abbronzatura non dovrebbe essere considerata un obiettivo, ma piuttosto un risultato di un’esposizione al sole gestita con attenzione.

In conclusione, tutti devono usare la crema solare, indipendentemente dall’età. Il sole fa bene, non apporta solo danni, ma proteggersi è importante, perché un’esposizione eccessiva ai raggi solari può aumentare il rischio di sviluppare tumori cutanei.

Si può usare la crema solare dell’anno prima?

È importante non utilizzare creme scadute o non scadute ma aperte dall’anno prima perché perdono in efficacia e non proteggono adeguatamente la pelle. Si tratta di prodotti complessi che nel tempo possono subire fenomeni di degenerazione, compromettendone le proprietà.

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A cura di mmaestri


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